Il potere della relazione nel wealth management

di Nicola Onorati* *Socio fondatore di Onorati Solutions, società che si occupa di consulenza aziendale e formazione

*Tratto dalla newsletter di Assoreti Formazione

Abbiamo assistito in questi ultimi anni a una rapidissima evoluzione del mercato in àmbito di consulenza finanziaria e wealth management e alla nascita di nuovi trend, legati ma talvolta divergenti, fra domanda e offerta.

Tre risposte ai cambiamenti
La risposta dell’industria alle indicate tendenze è caratterizzata prevalentemente da: rafforzamento della propria offerta, proponendo nuovi servizi, anche in un perimetro specificatamente “patrimoniale”, puntando molto sulla innovazione finanziaria e perseguendo spesso la strada del “fatto di moda”; tecnologie associate allo sviluppo di nuove piattaforme di servizio e a nuovi sistemi per la gestione dei processi interni, seguendo le logiche degli advisory tools, dei robot finanziari e così via; continua rincorsa, spesso solo formale, alla ricerca del necessario allineamento agli adempimenti normativi nazionali e comunitari.
Relativamente all’offerta, inoltre, lo sviluppo del risparmio gestito e l’accentuarsi dei drivers competitivi delle suindicate piattaforme, hanno favorito un processo di crescente “complessità” a cui, però, continua sempre a contrapporsi la ricerca di “semplicità” da parte della domanda.

Asimmetrie di mercato
Se poi aggiungiamo l’esigenza, da parte dei “players” citati, di sviluppare dinamiche di produttività, a fronte di un costante innalzamento della curva dei costi, la risultante finale evidenzia una forte asimmetria tra: contenuti dell’offerta, con conseguente maggior livello di sofisticatezza nel rapporto servizio/bisogni, in modo particolare sui target di alta gamma; competenze relazionali specifiche. Esiste, dunque, una discrasia fra ciò che gli intermediari identificano come priorità del mercato e ciò che il mercato effettivamente richiede? Per rispondere a questa domanda, basta rifarsi ai contenuti sopra accennati, relativamente ai cambiamenti in corso.
Anche sotto la considerevole spinta dei regolatori “europei”, tutti gli istituti hanno avuto la necessità di investire molto in campo tecnologico, per dotarsi di nuovi supporti informatici che li aiutassero ad adempiere alla convergenza e al soddisfacimento degli standard di trasparenza richiesti.
Parallelamente, si è fatto più incalzante l’impiego di nuovi investimenti in àmbito di “offerta”: a volte per individuare nuovi “spazi” da aggredire, altre volte per approfondire fenomeni sociali sicuramente condivisibili come, ad esempio, quelli legati al mondo della finanza sostenibile.

L’economia comportamentale
Una delle chiavi di lettura indispensabili per poter scrivere un futuro diverso dal presente che stiamo vivendo, ci viene offerta dalle teorie di Herbert Simon (premio Nobel 1978, grazie ai suoi studi di Economia comportamentale) e dagli assunti delle principali scuole di pensiero, che si sono avvicendate a partire dal Novecento fino ai giorni nostri in un contesto metodologico-comportamentale. L’osservazione sull’affollamento competitivo sembrerebbe semplice, quasi ovvia, eppure non è minimamente così. Abbiamo infatti assistito a una corsa accanita a chi offre il servizio, anche tecnologicamente parlando, più innovativo e complesso, aumentando così lo stress di sopravvivenza fino a livelli insostenibili, e al pericoloso restringimento dello spazio operativo che, essendo aggredito in modo eguale, non sarà mai abbastanza ampio da riuscire a ripagare gli sforzi compiuti: sforzi, dunque, spesso del tutto vani. Infatti, l’aspetto più distruttivo di questo processo è l’introduzione di un elemento di sopravvivenza darwiniana, affidato ad un vantaggio competitivo del tutto effimero e di brevissima durata: l’eventuale distacco, che può derivare da una simile tipologia di innovazione, viene puntualmente colmato dalla concorrenza in men che non si dica.

Qualità che non emerge
Il risultato? A voi la risposta… Non solo! I clienti non percepiscono né l’entità né il valore di tali interventi e, quindi, non sempre li considerano determinanti nel processo decisionale e incentivanti per la risoluzione delle proprie esigenze personali più profonde.
Si accentua, così, la necessità che la gestione degli assets abbia un perimetro e un respiro ampi, “patrimoniali” e olistici. In questo modo, va da sé che la discriminante non potrà certo risiedere soltanto nell’offerta di maggiori servizi ma, piuttosto, in un valore aggiunto a essa perfettamente integrato, ovvero una strategia di pianificazione patrimoniale (pianificazione-tempo/patrimoniale-spazio) basata su valutazioni “globali” del cliente. Vale a dire una consulenza a tutto tondo, che si rivolga ai bisogni profondi, senza commistione tra mezzi e fini (servizi, tecnologia, etc. sono soltanto strumenti), tenendo conto che il confine tra economia reale e finanza e le esigenze professionali e familiari di ieri e di domani è un “tutto” che non è possibile dirimere e che esprime più della somma delle singole parti.

Fiducia da coltivare
Appare evidente che puntare sulla qualità dei rapporti implica la ricerca del modo migliore (lo studio del processo cognitivo/comportamentale e quindi decisionale) per incontrare il sistema di bisogni di ogni cliente e, conseguentemente, richiede attenzioni orientate a modificare i paradigmi della consulenza, dei prodotti attualmente offerti e quindi, in prospettiva, anche la pertinenza strategica dei futuri investimenti per l’innovazione.

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