La dynasty dei Damiani

Stefano Fossati

 

Ci avevano provato anche loro, a puntare sulla Borsa. Salvo pentirsene pochi anni dopo, ben prima dei Benetton o dei Della Valle. Quella della famiglia Damiani è una storia imprenditoriale tipicamente italiana: quasi cent’anni di tradizione nella gioielleria, nel 2007 aveva visto nella quotazione a Piazza Affari la strada per consolidare la crescita a livello internazionale. Salvo fare marcia indietro nel 2019 quando, con il delisting, i fratelli Guido, Silvia e Giorgio hanno ripreso il pieno controllo dell’azienda fondata dal nonno Enrico. “Le logiche della Borsa di oggi, e non solo di quella italiana, non ci appartengono: si richiede una crescita costante e veloce c’è troppa volatilità e scarsa possibilità di investire nel lungo termine”, spiegò il presidente Guido Damiani.

 

Performance negativa

Rispetto all’Ipo, l’azienda aveva perso il 75% del suo valore: un po’ troppo, per quello che è oggi l’unico gruppo italiano di rilevanza internazionale rimasto indipendente in un settore sempre più in mano a multinazionali con baricentro lontano dal nostro Paese. Un gruppo che, per inciso, conta 800 dipendenti e nell’anno fiscale 2021/2022 ha fatturato 238 milioni di euro, con una crescita del 69%.

 

Nel cuore del distretto piemontese

Quella della Damiani è una storia che nasce e si sviluppa fino ai giorni nostri, non a caso, a Valenza, città sulla sponda meridionale del Po, in provincia di Alessandria: qui, fra il Monferrato e la Lomellina, già alla fine dell’Ottocento si sviluppò – grazie alla prima manifattura avviata da Vincenzo Melchiorre – quello che sarebbe diventato il più importante distretto in Europa per la lavorazione di gioielli e oro. Già negli anni Venti del secolo scorso il talento del maestro orafo Enrico Damiani conquistò alcune delle più facoltose famiglie dell’epoca: nobili di antico lignaggio e industriali emergenti frequentavano il suo laboratorio per ordinare pezzi unici, lussuosi capolavori capaci di distinguersi dalla pur pregevole produzione di gran parte dei concorrenti. Per conquistare un gioiello Damiani occorrevano una buona disponibilità economica e altrettanta pazienza: quella di Enrico – affiancato da pochi collaboratori – era e rimaneva un’attività artigianale, a dispetto delle liste di attesa sempre più lunghe.

 

Lusso “democratico”

A dare all’azienda una dimensione industriale fu il figlio Damiano, classe 1934, che già negli anni Sessanta avvia un processo di crescita produttiva e commerciale. Nel pieno del boom economico, affiancando all’estro creativo del padre una spiccata vocazione imprenditoriale, introdusse nuovi processi di lavorazione basati su tecnologie innovative e promosse la ricerca sul piano del design. Damiani fu fra i primi marchi in Italia a promuovere la “democratizzazione” del lusso, a guardare al di là delle nicchie di mercato trasformando il concetto stesso di esclusività: non più pezzi unici creati dall’artigiano di fiducia, bensì oggettivi riconoscibili universalmente per la ricercatezza dello stile e la raffinatezza dell’esecuzione. E introducendo logiche commerciali fino ad allora pressoché sconosciute nell’alta gioielleria: dai prezzi al pubblico garantiti ai cataloghi che presentavano tutte le collezioni.

Determinante nell’espansione industriale fu anche la moglie di Damiano, Gabriella Colombo , che per molti anni ricoprì un ruolo centrale nella creazione e nello sviluppo della rete di vendita. E non solo. Si deve infatti a un suo disegno il bracciale “Shark”, con cui nel 1976 Damiani si aggiudicò un prestigioso Diamonds International Award, primo di una lunga serie (ne sarebbero arrivati altri 17 negli anni successivi).

Fra gli anni Ottanta e Novanta il gruppo di Valenza rafforzò la propria presenza sul mercato dell’alta gioielleria con le prime acquisizioni (Salvini) e la realizzazione di una serie di fortunate campagne pubblicitarie con protagonisti testimonial di prestigio quali Isabella Rossellini, Brad Pitt, Gwyneth Paltrow, Chiara Mastroianni, Sophia Loren. Per Damiani, un momento d’oro – e non è un gioco di parole – che rischiò di interrompersi bruscamente nel 1996, quando Damiano Damiani morì improvvisamente a 62 anni in un incidente stradale.

 

Dal laboratorio alla boutique

Come dimostra la storia di tante dinastie imprenditoriali, è spesso una figura femminile a rivelarsi determinante nel superare i momenti più difficili. Damiani non fa eccezione. Fu infatti proprio Gabriella a prendere in mano le redini dell’azienda e ad accompagnarne al vertice i tre figli, impegnati già da qualche anno in diversi ruoli operativi. Con la gioielleria ben impressa nel Dna: “Siamo cresciuti nello stesso palazzo in cui i miei genitori avevano l’ufficio e il laboratorio. I nostri giocattoli erano i gioielli. In casa si parlava sempre del nostro lavoro. Siamo cresciuti respirando questa aria e nessuno di noi fratelli ha mai avuto mezzo dubbio circa il proseguire o meno quello che la famiglia aveva creato”, ricordava qualche anno fa Guido Damiani in un’intervista a Forbes.

 

Suddivisione dei ruoli

Ritrovatosi alla presidenza dell’azienda a meno di trent’anni (è nato nel 1968), Guido è ancora oggi affiancato dai fratelli vicepresidente con delega alle relazioni esterne e all’immagine, e Giorgio, vicepresidente con deleghe all’acquisto di materie prime, allo sviluppo prodotti e alle relazioni commerciali. Con mamma Gabriella che ha ricoperto la carica di presidente onorario fino alla scomparsa, nel novembre 2020. Con la soddisfazione di avere vissuto l’ennesimo cambio di passo per l’impresa di famiglia. Sul finire degli anni Novanta vennero aperte le prime filiali internazionali e nei primi anni Duemila il catalogo di marchi si ampliò ulteriormente con la creazione di Bliss e l’acquisizione nel 2006 dello storico brand milanese Calderoni.

 

 

Allargamento del perimetro

L’anno successivo è quello del già citato approdo in Borsa, che si rivelerà avaro di soddisfazioni nel medio periodo ma fa tutt’oggi di Damiani uno dei pochissimi gruppi di alta gioielleria nel mondo ad avere raggiunto questo traguardo. Preludio a un ennesimo allargamento del perimetro, questa volta nella distribuzione, con l’acquisizione nel 2008 del pieno controllo della catena di gioielleria e orologeria di alta gamma Rocca, già peraltro in mano alla famiglia.

 

A proposito. Sarà grazie anche all’esperienza giovanile di Guido , che egli anni dell’università si manteneva facendo l’agente immobiliare, sta di fatto che il focus sul retail è stato portato avanti negli ultimi anni con l’acquisizione di spazi prestigiosi nelle vie più eleganti di mezzo mondo, da Milano a Roma, da Parigi a Kuala Lumpur, per l’apertura del network di boutique a gestione diretta. Come quello appena conquistato ancora nel capoluogo lombardo, in Galleria Vittorio Emanuele, dove quest’anno una nuova boutique Damiani prenderà il posto di un monomarca Tod’s.

 

Non solo gioielli

Se la distribuzione continua a crescere -anche in franchising – a livello internazionale, in particolare sui mercati orientali e mediorientali, la produzione resta ancorata all’Italia e in particolare a Valenza, dove nel 2019 il gruppo ha acquisito l’ex Palafiere – in abbandono dal 2014 dopo soli sei anni di attività – con l’intenzione di trasformarlo in un polo manifatturiero d’avanguardia. La sfida, impegnativa, è quella di continuare ad affermare l’eccellenza della tradizione orafa italiana in un settore, quello dell’alto di gamma, sempre più dominato dalle multinazionali del luxury. Come la parigina Cartier, che fra quest’anno e il 2024 aprirà due nuovi insediamenti produttivi a Torino e – non a caso – proprio a Valenza.

Una sfida alla quale la famiglia Damiani ha deciso di rispondere avviando fra il 2016 e il 2020 il primo progetto di diversificazione con l’acquisizione di Venini, la più famosa e blasonata vetreria artistica del mondo, fondata nel 1921 a Venezia. Perché, anche nel lusso, non è tutt’oro quel che luccica. A volte è anche vetro.

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