di Antonella Massari, Segretario Generale di AIPB
Davanti a un pericolo, il sistema nervoso pone gli esseri umani di fronte a un bivio: fight or fly? Combattere o fuggire? Attaccare o difendersi? Le imprese italiane, fatte di persone e guidate da persone, nei momenti di incertezza o di contrazione dei mercati si trovano ad affrontare la medesima scelta. E, storicamente, hanno optato spesso per la fuga, ovvero per “difendersi” hanno adottato un’ottica di breve periodo e si sono concentrate sull’efficientamento e sulla riduzione dei costi, comprimendo gli investimenti.
L’importanza della ricerca
Emblematico, in questo senso, quanto accaduto durante la più conclamata e globale delle recenti situazioni di crisi, quella legata alla pandemia da Covid-19. Secondo i dati Istat, nel 2020, le imprese hanno ridotto gli investimenti in R&S del 6,8%, con un interessante spaccato dimensionale: le piccole imprese (meno di 50 addetti) hanno tagliato gli investimenti del 26,5% rispetto al 2019, le medie imprese hanno registrato una diminuzione del 17,5% e le grandi imprese (oltre 250 addetti) hanno invece aumentato la quota del 2,2%.
Oggi stiamo attraversando una situazione in cui il Pil nazionale cresce a ritmi inferiori all’1%, in cui alcuni dei principali Paesi di destinazione dei prodotti made in Italy, come Germania e Francia, vivono situazioni di instabilità politica ed economica. Al contempo, la nuova presidenza Usa vuole imporre forti dazi per limitare le importazioni. Sullo sfondo rimangono le tensioni geopolitiche in Medio Oriente e il conflitto russo-ucraino. Dobbiamo quindi aspettarci una nuova contrazione degli investimenti da parte delle imprese italiane?
Un tessuto di imprenditoria diffusa
Possibile, certo. Ma non indolore. E fondamentalmente sbagliato, considerando la centralità delle Pmi per l’economia del sistema-paese. Secondo il report A microscope on small businesses realizzato a maggio 2024 da McKinsey, in Italia le piccole e medie imprese contribuiscono per il 63% del valore aggiunto e per il 76% dell’occupazione, valori che risultano superiori a quelli medi delle economie avanzate. L’osservatorio Corporate Governance di Teh Ambrosetti rileva, inoltre, che il 99% delle società italiane ha un fatturato inferiore ai 30 milioni, quelle tra i 30 e i 100 milioni sono solo 9 mila, e scendono a 4 mila quelle sopra i 100 milioni. Nel nostro paese, le aziende di dimensioni rilevanti sono poco più di una ventina, contro le oltre 50 tedesche e le quasi 300 cinesi.
I percorsi di crescita
Non posso non pensare che scelte conservative siano frutto anche della struttura di governance delle imprese italiane. In un recente studio condotto da Aipb in collaborazione con Doxa si rileva come il 76% delle Pmi sia costituito da società a responsabilità limitata, con una leadership fortemente centralizzata e decisioni affidate a una sola figura, spesso maschile (74%). E la governance “semplice” è addirittura considerata un punto di forza dagli imprenditori, tanto che per il 90% non vi sono ragioni per modificare l’assetto societario.
La medesima indagine rivela che il 35% delle aziende desidera crescere, un’ambizione più marcata nelle grandi imprese (44%). Sono proprio queste ultime a mostrare una maggiore propensione a svilupparsi per vie esterne, attraverso acquisizioni o l’ingresso in nuovi mercati, mentre le piccole appaiono più conservative. Inoltre, due imprenditori su tre sarebbero disposti a considerare una parziale apertura del capitale, anche se incontrano difficoltà nel trovare soci adatti e lamentano sia tempi troppo lunghi che costi elevati.
La situazione s’ingarbuglia ulteriormente se si considera dove reperiscono i capitali le imprese italiane. Sempre secondo dati Aipb esse prediligono l’autofinanziamento, il reinvestimento degli utili e i prestiti bancari. Strumenti più innovativi, come il private equity o le obbligazioni, sono poco utilizzati e, in molti casi, sconosciuti: il 70% degli imprenditori non conosce i club deal e il 55% ha scarsa familiarità con il private equity.
Il paradosso
Come si fa a crescere bloccando gli investimenti e con una scarsa propensione a utilizzare forme “non tradizionali” (ma in altri paesi comunissime) di finanziamento? Un vero paradosso. In questa sfida per la crescita (e contro i paradossi) delle imprese italiane, il ruolo del private banking – che gestisce un patrimonio di circa 1.200 miliardi di euro, quasi il 50% della ricchezza finanziaria delle famiglie – può essere cruciale.
Gli imprenditori rappresentano il 23% dei clienti private e circa il 30% delle masse. La gran parte di loro, inoltre, guida Pmi: l’85% non superano i 20 dipendenti. Non stupisce, poi, che nel corso dell’anno i temi maggiormente affrontati nei frequenti incontri tra imprenditore e consulente riguardino proprio l’azienda. Inoltre, l’81% degli imprenditori afferma che la propria competenza finanziaria sia cresciuta proprio grazie agli scambi con il private banker.
Partendo dal rapporto fiduciario che si viene a creare, perciò, il consulente può contribuire a proporre soluzioni per limitare alcune delle debolezze delle aziende di ridotte dimensioni, rafforzando la struttura decisionale aziendale, integrando competenze manageriali e promuovendo una visione strategica di lungo periodo. Inoltre, può favorire la crescita per vie esterne, agevolando l’adozione di strumenti di finanziamento alternativi a quelli più tradizionali. Infine, può rendere più fluida la continuità, supportando le imprese familiari nel delicato processo di passaggio generazionale e promuovendo l’uso di strumenti come trust e patti di famiglia.
Il nodo della competitività
In altre parole, il private banking è nella posizione ideale per contribuire a promuovere una trasformazione culturale che rappresenta anche una potenziale leva per il rilancio economico dell’Italia. Supportare le Pmi nella ricerca di una crescita dimensionale e strategica (anche attraverso aggregazioni) realizzando investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo grazie all’accesso a modalità di finanziamento “alternative” significa favorire lo sviluppo dell’intero Sistema-Paese.
Perché la domanda, in fondo, non è fight or fly quanto, piuttosto: crescita o decrescita?