L’annunciata introduzione di dazi da parte di Donald Trump, seguita da una sospensione (parziale) di 90 giorni, ha segnato una svolta nelle dinamiche del commercio internazionale, creando grande incertezza. Questo cambio di scenario impone una inevitabile e profonda riflessione alle imprese italiane. In particolare, le Pmi – colonna portante dell’economia nazionale – si trovano oggi di fronte a una sfida cruciale: continuare a difendere la propria posizione in un mercato consolidato, quello americano, in cui le nostre esportazioni pesano per 65 miliardi di euro (oltre il 10% del totale)[1], o cogliere l’opportunità di aprirsi a nuovi mercati?
Aperture selettive
L’Osservatorio Aipb 2024 sugli imprenditori offre spunti preziosi. Emergono dati in apparenza contraddittori, che tuttavia raccontano molto dello stato del tessuto imprenditoriale italiano. Da un lato, l’apertura a nuovi mercati non figura tra le priorità delle Pmi: solo il 19% dichiara di aver investito in questa direzione negli ultimi 12 mesi. Dall’altro, le stesse imprese godono di una solidità finanziaria crescente, con saldi finanziari in costante aumento, a differenza delle famiglie italiane, il cui patrimonio si è progressivamente eroso dal 2000 a oggi.
Oggi ci troviamo davanti a una convergenza critica di fattori destabilizzanti: incertezza globale, pianificazione strategica miope (nel 67% dei casi limitata all’orizzonte annuale), modelli di governance poco evoluti e rigidità culturali che bloccano le scelte più audaci, come gli investimenti in innovazione e apertura dei capitali. A tal proposito, è significativo che il 90% degli imprenditori non percepisca la necessità di modificare l’assetto societario, pur in presenza di scenari radicalmente mutati.
Il potenziale inespresso
Eppure, le risorse per affrontare questa transizione non mancano. Le Pmi italiane sono oggi liquide e potrebbero mobilitare queste risorse per accedere a nuovi mercati, affrontare operazioni straordinarie o investire in tecnologie e capitale umano. Ma la paura del cambiamento, unita a una limitata conoscenza degli strumenti disponibili (Club deal, Private Equity, Minibond), rappresenta un potente freno. La governance, nella maggior parte dei casi familiare e accentrata, lascia poco spazio a manager esterni e approcci più strutturati alla crescita.
In questo contesto, il private banking può giocare un ruolo determinante non solo come gestore del patrimonio personale, ma anche – e soprattutto – stimolando la consapevolezza del cliente-imprenditore. L’industria private gestisce oltre 1.200 miliardi di euro, ovvero la metà della ricchezza finanziaria investita delle famiglie italiane. Gli imprenditori rappresentano il 23% dei clienti Private e circa il 30% delle masse. La gran parte di loro guida PMI che nell’85% dei casi non superano i 20 dipendenti. I Banker sono costantemente in contatto con questi imprenditori, nel corso dei loro incontri parlano di temi legati all’azienda, offrendo soluzioni per affrontare il cambiamento.
Il valore aggiunto della consulenza
In tal senso, abbiamo il dovere di garantire una consulenza che non si limiti ai soli aspetti finanziari. Serve un percorso guidato che aiuti l’imprenditore a individuare le opportunità dietro le difficoltà: dall’apertura del capitale tramite quotazione o l’ingresso del private equity (oggi considerata solo dal 21% delle grandi imprese) alle operazioni di m&a, dalla pianificazione successoria alla diversificazione geografica. Il nostro compito è creare consapevolezza, facilitare soluzioni e accompagnare questi imprenditori verso una nuova fase della loro storia.
Alternative per la crescita
Uno studio condotto da Aipb insieme a Prometeia mostra come le Pmi che adottano strumenti di finanziamento non bancario a lungo termine registrino una crescita del fatturato e un balzo della produttività del 20%. È la prova che cambiare rotta è possibile.
In un mondo dove le barriere commerciali tornano a ridisegnare le rotte dell’economia globale, le Pmi italiane non possono più permettersi di restare immobili. Occorre passare da una logica difensiva a una proattiva, sbloccando quel capitale – umano, finanziario e organizzativo – che oggi è presente ma sottoutilizzato.
Il private banking è pronto a fare la sua parte e affiancarsi a quelle imprese che con coraggio, decino di aprirsi a nuovi mercati e nuove strategie di crescita.