Arte, il confine tra passione e investimento

Estratti da Areastudimediobanca.com

 

 

Non si potrebbe immaginare un migliore punto di tangenza tra la dimensione edonistica dell’arte e quella finanziaria se non nella figura di un economista-collezionista. Tanto più che l’economista in questione porta il nome di John Maynard Keynes, nella cui biografia scritta da Harrod si trova questo passaggio: “Maynard was infected by the enthusiasm, and, in due course, became a buyer of pictures and books. His flair for the subject is testified by the value of his collection of modern pictures which he bought, for the most part, at very modest prices”.

Due economisti di Cambridge (UK), David Chambers ed Elroy Dimson, assieme a Christophe Spaenjers (Università del Colorado), studioso di spicco nel campo degli investimenti in arte, hanno esplorato in dettaglio le vicende legate alla passione per l’arte di Keynes (2). La sua collezione fu composta tra il 1917 e il 1945 per essere poi lasciata in eredità al King’s College l’anno successivo alla sua morte, ove essa è tuttora conservata. Si tratta di oltre cento opere, tanto di artisti accreditati (e.g. Braque, Cézanne, Matisse) quanto di altri che gravitavano nel suo entourage (e.g. Duncan Grant, Vanessa Bell). Valutata poco meno di 13mila sterline all’epoca della sua formazione, essa è stata stimata 76,2 milioni di sterline nel 2019.

 

L’economista collezionista

Si tratta di un caso di indiscutibile successo, avendo generato un rendimento nominale medio annuo del 10,4%, pari al 6,1% in termini reali. La dimensione della performance è ancora meglio apprezzabile se confrontata con altre asset class. Nel 2019 l’investimento artistico di Keynes avrebbe reso meno di quello in azioni, ma con uno scarto pari ad appena lo 0,2% su base annua (quindi: 10,4% vs 10,6%), mentre avrebbe garantito una sostanziosa extra-performance sia rispetto alle obbligazioni (+3,7% medio annuo il differenziale a favore), sia rispetto a un indice espressivo dell’intero mercato dell’arte (+2,8%). Detto altrimenti, il montante finale del portafoglio artistico di Keynes nel 2019 è risultato pari all’84% di quello ottenibile investendo in azioni, ma a 22,4 volte (sic) superiore a quello investito in obbligazioni e a 9,2 volte quello riferibile a tutto il mercato dell’arte.

La storia di Keynes collezionista sembrerebbe sdoganare l’arte quale asset class capace di abbinare un adeguato ristoro economico al suo intrinseco ‘rendimento estetico’.

 

Gli albori: quaranta anni fa

Quasi quarant’anni fa, ed esattamente quaranta dopo la morte di Keynes, William Baumol, considerato il padre della Cultural Economics, così si esprimeva:

“Ownership of art works (…) may well represent a very rational choice for those who derive a high rate of return in the form of aesthetic pleasure. They should not let themselves be lured into the purchase of art by the illusion that they can beat the game financially” (corsivi nostri) (4).

L’economista relegava di fatto l’acquisto di opere d’arte a una dimensione esclusivamente collezionistica e personale, ma inadatta a rappresentare un’appetibile asset class. L’autore non esitava ad accostare l’esito dell’investimento in arte a un crap game, una partita a dadi.

Baumol riteneva di avere acquisto solidi argomenti a suo favore, avendo composto una serie storica di trecento anni, relativa ai prezzi di aggiudicazione in asta di opere pittoriche.

 

 

Gli sviluppi dopo Baumol, fino al 2000

Il sasso scagliato da Baumol non poteva lasciare lo stagno fermo, anche perché poco dopo la pubblicazione del suo lavoro il mercato dell’arte avrebbe sperimentato una forte ascesa.

Qualche anno più tardi, Bruno Frey, accademico dell’Università di Zurigo, entra nel dibattito con un articolo scritto a quattro mani nel quale gli autori evidenziano alcuni limiti dell’analisi di Baumol: troppo precoce la data terminale al 1961 e troppo limitante il riferimento al solo mercato inglese che trascurava quelli francese e tedesco.

 

 

Un salto ai giorni nostri

Il profluvio di studi sul rapporto tra arte e rendimenti è tale da avere sollecitato negli ultimi tempi la produzione di analisi bibliometriche. Esse consentono di cogliere i trend essenziali della letteratura, diversamente poco intellegibili data l’eterogeneità e l’abbondanza dei contenuti. Prima del 1990, gli studi sulle caratteristiche finanziarie dell’investimento in arte sono meno di dieci ed è a partire da quell’anno che si rileva una certa concentrazione di contributi. È tuttavia con l’ingresso nel nuovo Millennio che la produzione scientifica si sviluppa lungo un trend decisamente crescente.

 

 

 

Inserire Graf.2 – Evoluzione della produzione scientifica sull’arte come investimento

L’elemento forse più interessante, da un punto di vista finanziario, che viene approfondito negli studi dal 2000 in poi, riguarda il ruolo giocato dall’investimento in arte all’interno di portafogli contenenti asset finanziari o reali rispetto ai quali esso mostra una correlazione bassa o addirittura negativa.

Rinviando quindi alle survey bibliometriche per una ricostruzione dello sviluppo della letteratura, appare utile fare in questa sede riferimento alla più recente produzione scientifica che, attingendo da quella pregressa tutti gli avanzamenti metodologici acquisiti, offre un panorama aggiornato sui rendimenti dell’arte e sui suoi benefici in termini di diversificazione, grazie al ricorso a database molto ricchi.

 

Rendimenti a confronto

Il confronto con altre asset class, sia finanziarie che reali, appare tuttavia deludente per l’intero mercato dell’arte, come si evince dalla Tab. 4. Si notino soprattutto i valori dello Sharpe ratio (rendimento reale per unità di rischio) che è sistematicamente inferiore nel caso dell’arte (31).

Se è vero che il rendimento dell’investimento in arte non sembra offrire ritorni sistematicamente competitivi, un ambito nel quale esso può sortire effetti positivi riguarda i benefici della diversificazione cui esso consente di accedere.

 

Inserire Tab. 4 – Arte e investimenti finanziari o reali (1958-2016)

 

 

Il movimento delle quotazioni delle opere d’arte presenta infatti una sostanziale decorrelazione con altre forme di impiego, ed anzi con una correlazione negativa con quelle tra di esse che hanno natura finanziaria.

Oltre alla ovvia correlazione positiva con scultura, diamanti, oro e, in parte, auto classiche, sembra emergere una connotazione dell’arte come bene rifugio. Appare infatti degna di attenzione la correlazione negativa con asset finanziari quali bond e diversi indici di Borsa.

La conseguenza è che l’introduzione di opere d’arte all’interno di un portafoglio che contiene asset finanziari consente all’investitore di accedere a migliori combinazioni rischio-rendimento. In altre parole, rispetto al portafoglio in cui non compare l’a

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