I 25 anni di Banor

Luigi dell’Olio

 

Si può stare con successo sul mercato, restando sempre fedeli a sé stessi, mentre tutto intorno cambia radicalmente e velocemente? La risposta è affermativa se si pensa al caso di Banor Sim, fondata nel 2000, come una realtà di quattro professionisti intenzionati a dedicarsi alla consulenza finanziaria dei detentori di patrimoni importanti. Era l’era del cosiddetto “boom della New economy”, che per molte società si rivelò una vera e propria bolla, lasciando pochi superstiti. Sono seguiti anni di ripresa dell’economia globale, fino alla grande crisi finanziaria, che tra il 2007-08 ha messo in ginocchio numerose grandi banche private e di affari, con i riflessi che sono stati evidenti negli anni successivi sul rimo della crescita economica. Venendo all’ultimo lustro, abbiamo vissuto una prova continua: dalla pandemia alla rivoluzione digitale, fino alle crescenti tensioni geopolitiche che stanno ridisegnando gli equilibri di potere, mentre si fatica ancora a individuare l’approdo. In tutto questo periodo, Banor ha continuato a fare il suo mestiere e a seguire la propria filosofia, secondo l’intuizione iniziale del suo fondatore e amministratore delegato Massimiliano Cagliero,

 

Dottor Cagliero, partiamo dalla fine. In Italia è da poco iniziata una nuova stagione di consolidamento nel settore bancario. Tanti analisti dicono che le dimensioni sono ormai indispensabili per difendere la marginalità e per seguire clienti con esigenze sempre più complesse. Banor sfugge a questa narrazione. Che idea si è fatto?

A mio avviso non esiste una strada unica per fare questo mestiere, anzi c’è se ci riferiamo al fatto che la consulenza patrimoniale richiede risorse, competenze e valori umani. Quando sussistono queste caratteristiche, l’offerta può assumere varie forme, senza che una risulti a prescindere più valida delle altre.

 

Tolta questa curiosità, facciamo un alto all’indietro. Come è iniziata questa avventura?

Ho fondato la società nel Duemila, quando avevo meno di 30 anni. Avevo fatto diverse esperienze internazionali, dall’Università di Harvard a Goldman Sachs e in me cresceva il desiderio di fare qualcosa in Italia. Anche allora si parlava di risiko bancario, di rivoluzione digitale e sembrava esservi poco spazio per fare questo mestiere come si è sempre fatto, mettendo in campo competenze e disponibilità ad affiancare il cliente in maniera continuativa.

 

Tuttavia, quando è partito non poteva mettere sul piatto anni di esperienza da usare come biglietto da visita per i prospect, né come garanzia per ottenere il via libera a operare dalle authority. Come ha fatto?

Consapevole di questo ostacolo, ho rilevato una piccolissima realtà di quattro persone, con 40 milioni di asset in gestione, e ho iniziato a contattare persone che già conoscevo per presentare la mia proposta di consulenza personalizzata. Man mano sono cresciuti anche i professionisti che hanno condiviso la mia visione e oggi siamo 180 persone, con oltre 13 miliardi di asset under management. Molti clienti sono con noi dal primo giorno e abbiamo un turnover di banker che tende a zero.

 

Non ci ha raccontato qual è la chiave per crescere restando sostanzialmente fermi sull’idea originaria mentre tutto intorno è cambiato radicalmente e non una sola volta?

Su questo ci terrei a fare una precisazione. L’apertura al cambiamento è un tratto che non può mancare in chi fa business, a qualsiasi livello e latitudine. La domanda e i bisogni evolvono e bisogna essere sempre all’altezza delle aspettative. Ma l’approccio di fondo, fatto di trasparenza, qualità della consulenza e orientamento al lungo periodo, restano sempre validi. La fidelizzazione di clienti e professionisti è a mio avviso conseguenza in primo luogo del percorso di crescita sereno che ci caratterizza. Da noi non ci sono pressioni sui target di vendita, preferiamo il passaparola alle campagne aggressive di marketing, sappiamo che qualche anno si cresce di più e qualche altro di meno, ma non ne facciamo un dramma. Non essendo quotati, non dobbiamo pubblicare numeri ogni tre mesi: il nostro orizzonte è la relazione di fiducia da sedimentare negli anni. Per questo non è un problema se i colloqui con un potenziale cliente durano dei mesi: sappiamo che una volta acquisito, difficilmente ci lascerà per altri.

 

Dunque, possiamo riassumere quanto detto finora, dicendo che si cresce puntano sulla costanza?

Vedo tre macrovariabili chiave per il successo: clienti, collaboratori e autorità di vigilanza. Se questi ingranaggi girano bene, allora l’azienda è di successo.

 

Ha detto della sua esperienza internazionale. Ha trovato molte differenze nel fare business in Italia?

Sinceramente no. Ho fatto più di quello che mi sarei aspettato. Alla luce della mia esperienza, posso dire che sì, si può fare imprenditoria in Italia, anche in un settore molto regolato come il nostro. Certo ci sono meno soldi che in America, ma mai ho avuto percezione di non poter fare qualcosa perché sono in Italia.

 

Guardando in prospettiva, puntate a reclutare nuovi banker? Se la risposta è positiva, quali profili?

Il consolidamento dei grandi gruppi lascia opportunità a realtà di dimensioni come le nostre. Offriamo opportunità per chi cerca nuove sfide. Certo, non sempre è facile sposare una nuova cultura dopo anni di attività altrove. Si tratta di abbracciare una filosofia e un approccio al lavoro per tanti molto diversi rispetto alle abitudini. Nei banker cerchiamo trasparenza, capacità ed empatia. Voglio che l’analista e il manager che entrano in Banor siano più bravo di me, ma quando scelgo un banker, è importante che si tratti di una persona alla quale darei miei soldi. Nel tempo abbiamo oreso tanti giovani, li abbiamo fatti crescere e noi siamo cresciuti con loro.

 

Tra l’altro i banker da voi condividono i destini dell’azienda.

Si, chi vuole, può entrare nell’azionariato: vale per i private banker, così come per le figure chiave del management. Ero partito con una partecipazione totalitaria in Banor e ogni anno cedo un po’ di equity per ampliare la base dell’azionariato. La condivisione dei risultati è, a mio avviso, una leva importante per fare bene.

 

Non avvertite la pressione commissionale a fronte di clienti sempre più esigenti, crescenti costi di compliance e nuovi operatori che entrano sul mercato facendo leva sul digitale che abbassa le barriere all’ingresso?

Sinceramente non avverto questa pressione. Non ricordo si aver mai perso un cliente con un contrasto sulle fee. Se crei un rapporto di fiducia, se dimostri nei fatti di riuscire a offrire rendimenti e un livello di servizio superiori al mercato, non sono i 15 o 20 basis point a fare la differenza.

 

Tuttavia l’offerta deve fare i conti con una ricchezza che nel Paese non cresce ormai da tempo…

Vero, ma si liberano patrimoni anche con le successioni, i liquidity events, la creazione di nuovo risparmio.

 

Guardando alla prospettiva del cliente, cosa trova di distintivo in Banor?

Le rispondo sinteticamente: un livello di servizio unico. Non pretendo di dire migliore, ma sicuramente diverso. Nessun player italiano offre un livello di allineamento degli interessi, di trasparenza su parte commissionale, di condivisione delle riflessioni e delle analisi come Banor. Il cliente sa perché compriamo un titolo, un fondo, può raggiungerci in qualsiasi momento per chiedere chiarimenti o anche per un semplice confronto. Il nostro stile di gestione, anche questo, è sempre lo stesso: puntiamo sull’analisi value, con un approccio bottom-up. Questo probabilmente ci rende poco attrattivi per il cliente che vuole essere trader, che vuole un’elevata operatività, ma preferiamo la trasparenza.

 

Quindi anche nelle fasi di turbolenza dei mercati, preferite muovervi con cautela?

Condividiamo la battuta di Warren Buffett. A chi gli chiede qual è il suo orizzonte investimento, spesso risponde: “Forever”. Abbiamo alcuni titoli in portafoglio da 20 anni.

 

Detto del traguardo dei 25 anni, come vede il futuro di Banor?

Penso che il primo quarto di secolo di attività sia un punto di partenza, più che di arrivo. Il mercato pone sempre nuove sfide e noi siamo pronti ad affrontarle.

 

Chiudiamo con qualche domanda su di lei: qual è il suo stile di leadership?

Spesso ai miei colleghi dico che sono un finto ad. È uno scherzo, ma nemmeno troppo. In questi 25 anni non ho mai preso una decisione da solo. Questo non significa che non pratico la leadership: ci sono momenti in cui è fondamentale prendere decisioni e agire velocemente. Ma ho la grandissima fortuna di collaborare con un team di persone di cui ho la massima fiducia. Tutte le decisioni che l’azienda prende, sono facili perché le abbiamo discusse prima.

 

Ha degli hobby che la aiutano a staccare dal lavoro?

Non ho bisogno di staccare dal lavoro. Mi alzo prima dell’alba, leggo i giornali e inizio a lavorare subito e non è assolutamente un peso per me. I clienti ci affidano un pezzo della loro vita. Oltre a questo, mi piace molto passare tempo con la mia famiglia. Adoro fare sport: per non avendo mai avuto risultati eccellenti, ma ne faccio tantissimo.

 

 

 

 

 

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