Un Paese dalle mille università

Un sondaggio del rinomato Times, su basi molto soggettive (più interviste che dati), ha stilato una graduatoria delle migliori università del mondo. A conferma della soggettività della metodologia, la parte del leone è appannaggio delle università americane e britanniche, ma sono presenti altri Paesi come Giappone, Cina, Singapore, Israele, Germania, Francia, eccetera. In tutto, 19. Quello che stupisce e amareggia è la totale assenza di atenei italiani: le nostre blasonate eccellenze, a livello internazionale, di fatto spariscono. Per trovare le prime italiane (sono 14 in tutto) bisogna risalire, o meglio scendere, oltre il 226esimo posto. Anche l’anno precedente non c’erano italiane nelle prime duecento: la numero uno era alla casella 217. Non è certo un motivo di soddisfazione, specie considerando la presenza nel nostro governo di professori e rettori universitari: i loro colleghi li stimano meno dei mercati finanziari.

La graduatoria, per quanto soggettiva possa essere, è comunque un cartello segnaletico ben preciso sulla qualità delle nostre università: ottime per l’Italia, ma meno competitive per quanto riguarda l’Europa e il mondo. Bisogna allora riflettere sull’urgenza e l’importanza delle varie riforme da fare. La riforma del mercato del lavoro è importante, ma non si può trascurare la preparazione dei nostri giovani: il mercato del lavoro riguarda in buona parte loro. Soprattutto la crescita futura (se ci sarà) dipenderà molto dalla preparazione delle nostre nuove leve. Purtroppo la principale riforma dell’università, vale a dire l’abolizione del valore legale del titolo di studio, è stata bloccata dalle solite lobby e il tutto è stato rinviato a dopo (lunghissime) consultazioni e riflessioni. Allora si può ripiegare su regole meno incisive, in attesa di intervenire più decisamente sull’intera normativa dell’istruzione. Obiettivo di una qualunque riforma deve essere ridurre il numero delle università e dei corsi: inutile moltiplicazione di posti e di costi. Concentrando risorse ed energie, si può migliorare la qualità del servizio offerto. In Italia abbiamo troppe sedi universitarie (oltre un centinaio), come troppe province, troppi aeroporti, troppe squadre di calcio, eccetera; non esiste città che non vanti la sede di qualche facoltà.

Così facendo, oltre alla solita moltiplicazione di posti, si ottiene il risultato di non avere mobilità studentesca. Tutti si trovano una facoltà sotto casa o comunque non sono costretti ad allontanarsi da casa per seguire i corsi. In questo modo si formano i “bamboccioni”. Non si può imporre per legge di frequentare un’università lontana da casa, ma almeno si potrebbe stabilire che la laurea magistrale non si possa conseguire nella stessa sede universitaria della triennale. In questo modo, almeno gli studenti conoscerebbero due diversi metodi d’insegnamento, due scuole di pensiero e starebbero fuori casa. Anche i criteri per i finanziamenti, basati sulle valutazioni delle univer s i t à , andrebbero rivisti. Non si può valutare una facoltà in base al numero dei laureati sforn a t i ogni anno: è un incentivo a promuovere tutti o quasi; oppure sull’abilità a ricevere finanziamenti europei o comunque pubblici. Molto meglio fare riferimento al numero di laureati che trovano lavoro entro uno o due anni o considerare i finanziamenti dei privati, che lo fanno per sviluppare il proprio territorio, o degli ex alunni, per riconoscenza verso l’ateneo che li ha introdotti nel mondo del lavoro: indici di stima verso l’università. Altri criteri potrebbero essere le pubblicazioni di docenti e studenti, gli start up che nascono dall’ambito universitario e altri criteri tutti d’eccellenza in qualche campo. Tutto questo non dovrebbe trascurare la formazione umanistica: anch’essa, se meglio gestita, può generare lavoro e profitti. Ma anche qui sprechi e mala gestione fanno sì che si sprechino le opportunità del miglior patrimonio culturale e artistico del mondo.

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