Ok cambiare, se si sa come farlo

Un importante cambiamento si sta verificando in Europa l’abbandono del modello distributivo multimanager. Le ragioni sono economiche, in quanto i ritorni che le case terze offrono ai distributori sono troppo bassi. In Italia invece, dopo la bufera dell’ultimo semestre, si iniziano a notare delle innovazioni. Intermediari storici e blasonati che da anni non assumevano neofiti per sviluppare le reti dei pf ora fanno campagne di promozione e reclutamento tra i giovani. Accade anche il fenomeno opposto, e altri intermediari che puntavano prevalentemente sui neofiti oggi prendono in considerazione solo gli over 35 con una provenienza precisa. Le innovazioni di prodotti e di servizi di nuova concezione sono scarse, si fa sempre più ricorso al multimanager sia per l’innovazione di prodotto che di servizio per i Fof. Sono rare le fabbriche domestiche che sfornano nuovi servizi, rarissime purtroppo quasi uniche quelle che non delocalizzano ma aprono anche nuove fabbriche su altri mercati, una visione strategica importantissima ma poco condivisa.

La nuova parola d’ordine

Glocalizzare, cioè aprirsi a culture gestionali diverse, confrontarsi a livello internazionale, scambiare esperienze e conoscenze è da sempre un fattore di progresso culturale ed economico. La creatività che è la più importante caratteristica dell’industria italiana non trova riscontro nel settore finanziario. Continuiamo a importare prodotti e servizi e a esportare risparmio, senza nemmeno un’adeguata contropartita economica. L’industria italiana si limita a delocalizzare in Lussemburgo o Irlanda per mere ragioni fiscali e burocratiche, mentre non concepisce nemmeno di sfruttare l’eccezionale opportunità della glocalizzazione. I pf iniziano a percepire che le grandi aziende, si dice le uniche destinate a sopravvivere, si stiano omologando. Offrono tutte gli stessi prodotti e servizi: bancari, finanziari e assicurativi, la cosiddetta architettura aperta si avvale delle più note sgr internazionali, poco di quelle di nicchia. Il fenomeno più importante è la webbizzazione della clientela, la possibilità per i pf di operare dal proprio pc o iPad senza muoversi dal proprio ufficio e senza che il cliente debba andare a trovarlo. Effettuare tutte le transazioni via web è certamente una grande comodità. Ma esiste un rischio: nel giro di alcuni anni la clientela web nativa aumenterà e riuscirà a operare autonomamente, il pf sarà disintermediato perché ha rinunciato a una delle sue funzioni caratteristiche, ovvero quella di gestore di relazioni umane. “No human relations, no financial advisor”, insomma: se non c’è relazione non c’è rapporto professionale.

Troppo web può fare male

Ricorrere al web non è di per sé sbagliato, fa risparmiare tempo e a volte denaro, ma non vale per tutti i servizi. Sappiamo bene – dai principi di finanza comportamentale e dai riscontri di mercato – quanto siano disastrosi gli effetti del “fai da te”. La sensazione di omologazione sta pervadendo molto lentamente l’inconscio dei pf e qualcuno inizia a guardarsi intorno per capire come orientarsi. Oggi l’indecisione è maggiore perché i precedenti criteri di scelta non funzionano più, i marchi restano differenziati nominalmente, ma tranne poche eccezioni non si distinguono nemmeno differenze operative. Le attività caratteristiche e distintive dei pf – ovvero la gestione della relazione personale, la consulenza e l’assistenza per il risparmio gestito – sono passate in secondo piano. La consulenza pura è un fenomeno di nicchia limitato a qualche punto percentuale dei clienti. A seconda dell’origine degli intermediari prevale la raccolta assicurativa o l’apertura dei conti correnti o altro. L’attività che dovrebbe contraddistinguere il pf è il risparmio gestito, mentre attualmente compete con 300mila bancari, oltre 200mila assicuratori, 100mila e più mediatori creditizi e Aaf nelle attività caratteristiche di questi ultimi. Dovrebbero essere proprio i pf a privilegiare il risparmio gestito. Ciò non significa rinunciare ad alcuna attività accessoria, purché sia valutata appunto come accessoria.

La consapevolezza dei pf

I pf che prendono coscienza di questa situazione, dei rischi derivanti dall’omologazione e dalla webizzazione hanno bisogno di criteri ulteriori, oltre a quelli empatici ed economici a lungo termine, per operare una scelta oculata. I criteri dovrebbero tenere conto almeno di due fattori nella scelta dell’intermediario, considerato che il pf è un professionista e un imprenditore. La selezione dovrebbe orientarsi verso quegli intermediari che garantiscono allo stesso tempo la crescita professionale e lo sviluppo imprenditoriale. Gli elementi di valutazione non sono semplicissimi ma nemmeno impossibili. Si può partire dalla notorietà del marchio e dalla difficile scalabilità o cessione dell’impresa. Si può valutare l’immagine del marchio e la sua percezione; il posizionamento dello stesso che evidenzia il target di clientela cui si rivolge; l’attività prevalente dell’impresa che è misurabile dall’origine degli utili, domandandosi da dove provengono le principali fonti di reddito; l’esistenza di un’efficace fabbrica domestica di prodotti, una garanzia fondamentale di creazione di valore per i clienti interni ed esterni, cioè i pf e gli azionisti; un corretto trade off tra le provvigioni e tutti gli utili generati dall’attività dei pf; la capacità dell’impresa di generare utili netti consistenti proporzionati alle masse intermediate; la qualità e l’esperienza del top management; la snellezza della struttura amministrativa, il rapporto cioè tra il numero dei dipendenti e i pf.

I fattori dello sviluppo

Lo sviluppo professionale dipende inoltre da altri fattori. Il primo è il rispetto dell’autonomia professionale dei pf, cioè la possibilità di gestire i propri clienti senza essere influenzati da budget o incentivazioni devianti. Il secondo è il track record dei prodotti gestiti dalle fabbriche domestiche, garanzia di professionalità e di affidabilità per poter assistere correttamente i clienti. Non solo: nella storia dello sviluppo dell’azienda prevale l’acquisizione e l’inglobamento di altre reti o la capacità di attrazione e di aggregazione di singoli o di piccoli gruppi? Il secondo caso indica in genere un’azienda orientata al promotore finanziario. E ancora: la capacità d’innovazione a tutto campo con modelli, prodotti e servizi; la sensibilità alle richieste della rete per realizzare tempestivamente nuovi prodotti o servizi richiesti dal field piuttosto che scelte indiscutibili calate dall’alto; la libertà per il pf di lasciare l’intermediario se non si trova più a suo agio; la fidelizzazione della rete, basata non su barriere all’uscita ma legata a strumenti di compartecipazione a tutti i livelli, per esempio decisionali ed economici; la formazione, l’aggiornamento, l’informazione, la snellezza delle procedure operative. Sono tutti must necessari.

La forza del cambiamento

Il promotore finanziario che cambia intermediario non lo fa mai a cuor leggero. Cambiare è un rischio, oggi minimo per il fatto che quasi tutte le reti sono omologate e spesso i clienti devono solo cambiare collocatore per il risparmio gestito, gli altri servizi come i conti corrente e gli affidamenti sono tutti fungibili. Il cambiamento comunque resta una fonte di stress, non può essere reiterato facilmente, per queste ragioni è indispensabile andare oltre l’empatia e il welcome bonus e documentarsi prima di scegliere. I suggerimenti indicati non sono comunque esaustivi, ognuno può avere necessità di conoscere altri elementi. Una scelta così ponderata facilita il cambiamento, perché è una scelta non dettata dalla sola emotività e dalla convenienza ma basata anche su elementi concreti e razionali in una visione di lungo termine. Il cambiamento non è l’unico elemento che denota e promuove la crescita, può fondarsi su fattori di successo già sperimentati dal promotore finanziario nella propria esperienza passata, però è un fattore catartico di emancipazione che mette in movimento energie e autostima. Ingredienti quasi indispensabili per crescere e svilupparsi.

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