Nel novembre del 1987 commentò in Senato il crollo borsistico avvenuto a New York nel mese precedente, che aveva contagiato tutte le borse mondiali: scartate le interpretazioni troppo vaghe, o tecnicistiche, o moralistiche, egli spiegò gli elementi strutturali della crisi: «è impossibile la coesistenza a tempo indeterminato di un elevato disavanzo del Governo federale degli Stati Uniti, di tassi di interesse stabili o sollecitati verso il basso, di un cambio del dollaro stabile».
Lo stesso pragmatismo che, come ci ricorda Martin Wolf, Keynes oppose, nella sua spiegazione della crisi del 1929, ai moralisti dell’epoca. Come per Keynes, come per Einaudi che stigmatizzava i liberisti che avevano fatto del liberismo una religione, anche per Carli (cito le parole di Wolf) «i mercati non sono né infallibili né elementi di cui possiamo fare a meno. Sono fattori indispensabili di una economia di produzione e della libertà individuale, ma possono deteriorarsi e devono quindi essere gestiti con estrema cura». In complesso, i risultati dell’azione di Carli furono consistenti. Nell’anteguerra la quota degli intermediari non bancari sul totale delle passività finanziarie era inferiore a un terzo; nel 1963 superava il 40%; divenne prevalente nel 1971 (anche se non dobbiamo dimenticare che questi dati incorporano il fenomeno della doppia intermediazione).
Per quanto riguarda, invece, gli investimenti, osserviamo che lo stock di capitale fisso industriale, valutato a prezzi costanti del 1938, passò da 230 miliardi di lire nel 1950 a 345 nel 1960 a 766 nel 1970, con una crescita media annua per ogni decennio rispettivamente dello 0,7, del 4,1 e dell’8,3%. Guido Carli era scevro dall’economicismo: i temi sociali furono spesso oggetto della sua attenzione. In un intervento alla Scuola di guerra di Civitavecchia del 31 marzo 1969 constatò il progresso economico che l’Italia aveva compiuto negli anni ‘60, il mutamento strutturale verso la modernità. Allo stesso tempo, tuttavia, rilevò un preoccupante aumento degli squilibri. Gli squilibri non erano solo intersettoriali, ma anche territoriali: il divario tra Nord e Sud era allora e rimane oggi una delle preoccupazioni maggiori della banca centrale. Lo sviluppo sociale, infine, non stava procedendo di pari passo con il progresso economico: il fatto che alla periferia di alcune delle città italiane sorgano nuovi stabilimenti in alcuni casi modernissimi, non significa necessariamente che gli operai, gli ingegneri, i tecnici che vi lavorano trovino una scuola decente per i propri figli, trovino un ospedale, un ufficio postale ecc…
L’Italia di Carli, fin dal primo dopoguerra, fu un’Italia europea. È logico che egli abbia coronato la sua carriera politica, dovrei dire la sua carriera tout court, con la firma del trattato di Maastricht. Se noi siamo quasi naturaliter cittadini dell’Europa e del mondo, Carli lo fu per scelta, in un momento in cui puntare le proprie carte sull’apertura economica e ideale dell’Italia presentava un forte elemento di rischio. Dopo cinque anni trascorsi alla guida della banca centrale, egli riassunse così la propria percezione della strada fatta dall’Italia e di quella da fare: nella prima Relazione che ebbi l’onore di pronunziare di fronte a questa assemblea, concludevo costatando che «la nostra economia è corsa in avanti più celermente delle istituzioni nelle quali essa si inquadra ». Un quinquennio è trascorso da allora; mutamenti profondi sono avvenuti nella struttura della società italiana; l’onda ciclica è salita, è caduta, si è nuovamente innalzata, ma attraverso di essa si scorge la realtà di un progresso ininterrotto al livello delle imprese, dei sindacati, delle comunità locali, mentre i riflessi di questa realtà negli ordinamenti sembrano più pallidi e incerti, quasi il segno di una non superata diffidenza verso le idee moderne, di una distaccata incredulità innanzi a ciò che si va edificando. Nel settore pubblico e in quello privato dell’economia le imprese hanno completato impianti che accolgono le tecnologie più moderne e attendono senza soste a introdurre nuovi perfezionamenti organizzativi; collegamenti vengono istituiti fra le imprese dell’uno e dell’altro settore e con imprese straniere; le dimensioni vengono adeguate alle esigenze di mercati in continua espansione, mentre imprenditori indipendenti, audaci fino alla temerarietà, si impegnano in un cimento nel quale il merito o il demerito dell’azione si giudica dai frutti che essa reca.
Ripeto oggi le sue esatte parole: «non sono sopite nel Paese forze rigogliose che accettano le condizioni nelle quali il genio dell’invenzione si sviluppa in finezza sotto la costrizione dell’aumento del rischio, in un mercato che si estende fino ai confini del mondo». Chiunque abbia o possa avere responsabilità di comando nella sfera pubblica e nella sfera privata, può creare lo spazio, intelligentemente ordinato, perché queste forze possano agire. Con l’urgenza, la determinazione, la serietà che la situazione attuale richiede. Così renderemmo omaggio a un grande italiano e a un grande europeo. Così il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha ricordato il 16 gennaio scorso la figura di Guido Carli, grande economista e grande politico, ma anche e sopratutto grande italiano. Spiace constatare che alla cerimonia in Via Nazionale per presentare la raccolta di studi di Carli non fosse presente nessun politico, né di governo né dell’opposizione.
Segno dei tempi magri che stiamo vivendo nel mondo ma fors’anche e soprattutto nel nostro Paese.
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