Primo importante campanello d’allarme o mero falso segnale ribassista? Il Vix, il cosiddetto “indice della paura” che misura la volatilità delle opzioni legate all’S&P500 ed è comunemente adottato come benchmark del “nervosismo” dei principali listini azionari mondiali, è balzato sopra quota 14 oltrepassando la trendline discendente di medio-lungo termine che lo comprimeva sui minimi. Di riflesso, l’S&P 500 è uscito al ribasso dal canale ascendente all’interno del quale si muovevano i corsi dall’inizio dello scorso aprile. Nonostante il rischio di inversione, osservando il grafico di confronto tra Vix ed S&P500, la distanza tra i due indici è ancora molto ampia rispetto alla media storica.
Ciò significa che a Wall Street nei prossimi mesi vedremo un downtrend? Una risposta certa, ovviamente, non esiste. Di certo è che il decupling rispetto all’azionario europeo ed asiatico dura ormai da oltre un anno e che, dal punto di vista dei fondamentali, il P/E rilevato dal consensus Bloomberg resta oltre quota 20 segnalando che i titoli Usa non sono di sicuro ancora a buon mercato.
Non solo. A preoccupare gli investitori, istituzionali e non, alla guerra dei dazi, si aggiunto anche l’incremento dei rendimenti dell’obbligazionario Usa con il Treasury 10 anni arrivato a sfiorare il 3,18% segnando il livello più alto dal 2011. Una dinamica che ha riportato sugli scudi il dollaro, ma che ha anche contribuito a far correggere Wall Street.
Certo, Trump e Xi potranno incontrarsi al G-20 di dicembre a Buenos Aires ed evitare l’aumento delle tariffe su alcuni beni dal 10% a 25% previsto per gennaio. Ma potrebbe essere già troppo tardi per dare un forte e positivo segnale ed evitare ulteriori brusche correzioni del listino americano (e di riflesso, con un probabile effetto leva, degli altri indici azionari mondiali).