Consulenti e bancari: fate attenzione a cambiare società

A cura di Antonio Mazzone, Bancadvice.it SAS

Dal 2016 gli istituti di credito hanno iniziato ad usare con frequenza sempre maggiore, l’istituto della “punizione selettiva” nei confronti di propri dipendenti o agenti colpevoli di essere passati (loro assieme alla clientela) ad altro intermediario concorrente.

Non che prima avessero avuto un atteggiamento benevolo, ma da pochi anni, hanno deciso di usare la “clava” in modalità random su soggetti “transfughi”, per educare tutti gli altri.

E la clava si chiama “denuncia penale” ai sensi degli articoli 615, 646 e 622 del c.p..

Ovvero contestazione dei reati di: accesso abusivo al sistema informatico – appropriazione indebita – rivelazione di segreto professionale.

Il dipendente bancario o consulente finanziario agente, già passato ad altra azienda concorrente, una mattina, di solito pochi minuti dopo le 7,00 riceve al suo domicilio la visita della polizia giudiziaria che gli notifica una informazione di garanzia, spesso seguita da perquisizione domiciliare ai sensi dell’art. 251 c.p.p.

Di colpo, la tranquillità personale, familiare e professionale del novello “indagato” viene compromessa duramente.

Non solo, passano solo pochi mesi, e arriva “l’uno-due” del KO: prima, sospensione cautelare dall’albo OCF previsto dall’art. 55 comma 2 del Testo Unico della Finanza e a seguire recesso per giusta causa da parte della nuova azienda mandante.

Il consulente finanziario, a questo punto, nella stragrande maggioranza dei casi che ho potuto esaminare, di fronte alla prospettiva di poter definire la sua vicenda processuale in un tempo non inferiore ai 10 anni (tra rinvio a giudizio, sentenza di 1° grado, appello, ricorso in Cassazione) decide di abbandonare il suo“sogno” professionale e di cercare altra occupazione.

Le responsabilità di questa drammatica situazione, sono da ricondurre principalmente a due soggetti: il primo, lo identifico nella banca o intermediario che attiva la denuncia penale per manifesta incapacità nell’offrire alla clientela “transfuga” una altrettanto valida risorsa professionale a loro dedicata e servizi di qualità; il secondo, nelle le figure manageriali locali e di sede centrale della azienda concorrente che hanno tenuto nella varie fasi di ingaggio del dipendente/consulente un atteggiamento superficiale e sbrigativo.

Ma una dose, non trascurabile, di responsabilità si deve ascrivere anche al malcapitato dipendente/consulente che ha deciso il “cambio di casacca” facendo leva sulle sole conoscenze personali e non affidando tale delicato compito a head hunter o strutture professionali (come la mia società, perdonate l’auto-spoiler) che permettono invece al candidato di affrontare in totale sicurezza questo particolare momento professionale e personale, con il conseguimento poi di un trattamento complessivo (contrattuale, economico, benefits) al di sopra di già elevate aspettative.

Non voglio banalizzare e  ridurre il tutto ad un semplice “promo” delle attività che svolge la mia azienda. Bensì, voglio ricordare a diversi attori in gioco che esiste un “prima” ed un “dopo” nelle attività di reclutamento di professionisti della consulenza finanziaria, siano essi dipendenti o agenti. Ed il “dopo” è rappresentato da un giorno preciso:   il 24 giugno 2019. 

In questa data è stata emessa una sentenza storica la numero 8366 da parte della  sez. IX penale del Tribunale di Milano. Importantissima perchè , per la prima volta, viene affermato che “ la disciplina degli accessi a server ed e-mail aziendali è questione molto delicata, in cui anche condotte all’apparenza non particolarmente offensive, quando non addirittura realizzate per ravvisate esigenze lavorative, possono assumere rilievo penale”. Fornendo una interpretazione ancora più restrittiva e penalmente incisiva di quanto era già emerso con due precedenti sentenze della Cassazione penale: la n. 37322 del 08/07/2008 ,  e la n. 17325  del 26/03/2015.

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