L’inflazione non sta mai ferma. Viaggia nello spazio, come abbiamo visto negli ultimi mesi con l’Europa che ha ampiamente scavalcato l’America. Viaggia anche tra un fattore e l’altro, come stiamo vedendo un po’ dappertutto.
Le materie prime, che l’avevano trainata verso l’alto nel 2021, nel 2022 l’hanno spinta verso il basso. La stessa cosa è successa per una parte della componentistica, in particolare per i semiconduttori. Molto enfatizzata in tanti commenti è anche la discesa dei costi di trasporto marittimi, che è però compensata dalle rotte molto più lunghe che le materie prime russe oggetto di sanzioni devono percorrere. Il petrolio che prima viaggiava da San Pietroburgo ad Amburgo ora fa il giro dell’Asia, viene raffinato e reso irriconoscibile in India e viene poi spedito in Europa. Il gas che passava per comodi gasdotti deve ora essere liquefatto alla partenza e poi rigassificato all’arrivo.
L’inflazione si è però trasferita, in particolare negli Stati Uniti, al costo del lavoro, che conta, a seconda dei settori, tra un terzo e i due terzi dei costi complessivi sostenuti dalle imprese. È proprio l’inflazione salariale, del resto, che rischia di mantenere ancora alto il livello dell’inflazione nei servizi, che costituiscono nelle economie avanzate i due terzi del Pil.
L’aumento delle retribuzioni è spesso visto con favore dai politici e dagli economisti, che sottolineano l’aspetto redistributivo rispetto ai profitti. I mercati, dal canto loro, quando indossano gli occhiali rosa (come in questo momento) ne vedono l’effetto positivo sui consumi, e quindi sulla crescita, e lo ritengono più forte dell’effetto negativo sui margini.
Dovrebbe poi essere rassicurante il fatto che l’inflazione salariale, anche negli Stati Uniti, sia leggermente inferiore a quella generale, quando in realtà potrebbe essere perfino superiore se si tenesse conto degli aumenti della produttività (in questi ultimi tempi molto deludenti, a dire il vero).
Perché allora tutta questa enfasi sul costo del lavoro da parte della Fed?
Nel suo più recente discorso, che pure è tanto piaciuto ai mercati anche se a ben vedere non conteneva niente di nuovo, Powell ha inserito l’inflazione salariale nel contesto della generale rigidità del mercato del lavoro, un vero problema strutturale. Questa rigidità, a sua volta, nasce da una domanda ancora abbastanza vivace e da un’offerta che sembra essersi strutturalmente inaridita.
Partiamo dalla domanda. Si è data molta enfasi ai licenziamenti nella tecnologia, incentivati anche dal fatto che la Borsa sembra premiare le società che annunciano i tagli. Si è parlato meno dei tagli in corso nei gigs, i lavori apparentemente indipendenti e in realtà precari nella new economy. Poco si parla invece della domanda ancora robusta proveniente dalla old economy. Infermieri, camerieri e baristi sono citati come esempio di figure introvabili, ma è in realtà tutto il mondo delle piccole e piccolissime imprese che cerca ancora di assumere, anche perché ha i soldi per farlo, e fatica a trovare manodopera.
Quanto all’offerta, nel decennio scorso si ripeteva costantemente che l’invecchiamento della popolazione è deflazionistico perché gli anziani spendono poco. Ora si scopre che l’invecchiamento porta anche inflazione perché riducendo la forza lavoro ne aumenta il prezzo.
Questi mutamenti strutturali inducono ora le banche centrali a mantenere alta la guardia anche in presenza di segnali evidenti di un inizio di decongestionamento del mercato del lavoro. Anche in Europa Isabel Schnabel, il baricentro politico della Bce, si sta muovendo sulla stessa lunghezza d’onda di Powell.
La Schnabel, una socialdemocratica vicina a Scholz ben lontana dalle velleità rigoriste della tradizione Bundesbank, ci invita a considerare un altro fattore strutturale che dovrebbe moderare l’entusiasmo dei mercati in queste ore, ovvero la divergenza tra le politiche fiscali che si mantengono espansive e le politiche monetarie che devono compensare le maggiori spese per riarmo e transizione energetica con tassi più alti.
Arriviamo qui a un nodo ulteriore. In questi anni convulsi e disordinati si è fatta economia di guerra quando la guerra non c’era (2020-2021) e si è iniziata la normalizzazione monetaria quando la guerra è cominciata (2022-2023). Il risultato è che la discesa dell’inflazione in un contesto di crescita in rallentamento rischia di avere conseguenze significative sui bilanci pubblici e sulla qualità del debito governativo. Meno inflazione con meno crescita significa infatti meno entrate fiscali, meno fiscal drag e, soprattutto, meno erosione del valore reale del debito pubblico rispetto al Pil. Durante l’economia di guerra (quando non c’era guerra) il debito/Pil, grazie all’inflazione, è addirittura sceso in tutti i paesi occidentali nonostante le fortissime spese. Ora che c’è la guerra e le spese devono continuare, proprio ora si smette di stampare moneta e si alzano i tassi reali, che in tempo di guerra di solito crollano.
Questo capovolgimento di prospettive deve indurre alla prudenza chi opera sui mercati sulla base dei tradizionali cicli economici dei tempi di pace. Certo, il 2023 sarà un anno buono per i bond (se non altro per il loro rendimento corrente). A differenza dell’azionario, che in caso di recessione verrà penalizzato e che con la disinflazione vedrà una perdita di pricing power da parte delle imprese, i bond di buona qualità non avranno nulla da temere da un rallentamento dell’economia.
Nel lungo termine, tuttavia, non è così scontato che le banche centrali, di fronte alle esigenze di cassa dei governi e con economie da rilanciare, possano continuare a combattere con fermezza l’inflazione. Per questo, dal loro punto di vista, è importante mandare un messaggio antinflazionistico forte adesso.
Venendo al breve termine, c’è da sfruttare questo momento magico in cui l’inflazione scende mentre l’economia è ancora abbastanza forte in America e comunque in piedi in Europa. Nei prossimi mesi l’effetto marginale delle buone notizie sull’inflazione andrà decrescendo, mentre le indicazioni di rallentamento dell’economia, oggi ancora accolte positivamente, cominceranno a essere lette come negative.
Certo, non possiamo escludere che la normalizzazione monetaria in corso sia così ben dosata da permettere un atterraggio particolarmente morbido, ma questo, se non altro per prudenza, non può essere lo scenario centrale per il 2023. Fino a fine 2022 (e forse ancora per qualche tempo nel prossimo anno) il momento magico ha però ancora uno spazio che potrà essere utilizzato sia per operazioni di trading sia per preparare i portafogli al rallentamento che verrà più avanti.