Petrolio, il primo punto interrogativo del dopo-Ferragosto

A quanto pare il futuro del petrolio sembra essere costellato da incertezze e variabili dell’ultimo minuto, con prospettive sempre più nere, ancora di più adesso che sul mercato si presenta un altro produttore. E questa volta inatteso: gli Usa.

Tutta colpa del Medioriente Dopo 42 anni di assenza ovvero dopo la prima crisi degli energetici legata alle guerre in Medioriente (e in questo caso alla guerra del Kippur), Washington torna sui suoi passi e decide che, visti i miglioramenti nelle tecniche di estrazione, l’abbondanza della materia prima e la conseguente crisi economica generata su vari settori energetici nonché l’impatto che questa crisi sta avendo su interi stati della bandiera, come il Texas, che “vantano” un output oltre i 9 mbg, quello che si estrae dal sottosuolo statunitense potrà essere venduto.
Nello specifico si tratta di una richiesta di scambio di greggio con il Messico approvata dal Congresso: oro pesante messicano in cambio di oltio più leggero dagli Usa.

Petrolio in calo Nell’ultima seduta il petrolio è riuscito a recuperare ancora qualche cosina: a New York le quotazioni in chiusura venerdì parlavano di 42,50 dollari al barile, in rialzo rispetto ai 41,35 segnati il giorno precedente, ma sono ancora pochi punti rispetto a quanto ci si aspettava in particolare dopo la smentita arrivata dall’Iran: Teheran ha tenuto a precisare che la sua produzione non aumenterà come inizialmente sospettato, di 500 mila barili al giorno.
Almeno per il momento perché le potenzialità estrattive della nazione, potenzialità che potrebbero essere incrementate nel giro di una settimana, rimarranno congelate sugli attuali standard fino a quando non verranno cancellate definitivamente le sanzioni contro il paese, così come previsto dagli accordi sul nucleare.

Il global glut Ma nonostante questo resta ancora aperta la questione del global glut e cioè della differenza fra un’offerta ancora abbondante e una richiesta relativamente scarsa e con ben poche prospettive di miglioramento.
Per questo motivo il Brent aleggia intorno ai 50 dollari al barile e il WTI oscilla sui 42, ai minimi da oltre 6 anni. A peggiorare le prospettive ancora negative anche per il 2016, le notizie che arrivano proprio dall’Opec e cioè l’organizzazione dei paesi produttori: oltre 31 milioni e mezzo di barili prodotti a luglio ovvero il massimo degli ultimi 3 anni, quanto basta per far abbassare a Citigroup i suoi target sia sul petrolio europeo che su quello statunitense con il primo a 48 dollari e il secondo che oscillerà tra i 54 dollari del 2015 e i 53 dollari del 2016.
Sempre che non si arrivi a 30 dollari al barile, opzione prospettata più volte e che sembra concretizzarsi sempre di più man mano che l’oro nero continua a scendere inesorabilmente di quota. Le variabili? Sempre le stesse: Cina, Opec Usa e Iran, con la sola differenza che allargando il raggio d’osservazione si conferma un trend, quello della continua smentita di tutte le previsioni, l’unica certezza effettivamente presente per il petrolio.

a cura di Trend Online

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