Dossier “Guardando a una nuova Mifid”: il pensiero di Alessandro Pedone (Aduc)

Sono ormai passati più di sei anni da quando, il 3 gennaio del 2018, è entrata in vigore in tutta l’Unione europea l’ormai celeberrima direttiva Mifid 2 (2014/65/EU) che, insieme alla Mifir o Markets in financial instruments regulation (regolamento EU n. 600/2014) ha preso il posto della precedente regolamentazione. È spettato poi ai singoli Stati membri dell’Unione il recepimento delle nuove regole, con l’adattamento della disciplina nazionale. Su questo fronte, probabilmente, il cammino non è stato dei più semplici. A titolo di prova, senza dimenticarsi dell’ormai abusato detto “tra dire e il fare c’è di mezzo il mare”, fa sicuramente effetto leggere i risultati di una  recente ricerca degli esperti di finanza comportamentale di Oxford Risk, la quale ha evidenziato che molti gestori patrimoniali europei non riescono ancora ad adattarsi pienamente alla direttiva, non valutando completamente l’idoneità della clientela agli investimenti e ai livelli di rischio. In particolare, una evidenza dell’analisi lascia decisamente interdetti: il 75% degli intervistati ammette di fare affidamento in gran parte sui clienti per sapere qual è il loro livello di rischio adeguato. Sondaggio alla mano, quindi, non tutto è andato per il verso giusto, anche se sicuramente gli spunti offerti dal legislatore sono andati nella direzione della tutela del risparmio. Inoltre, focalizzandoci su un’altra delle tematiche del momento in materia di investimenti, cioè la sostenibilità, solo due gestori patrimoniali europei su cinque (38%) sono pienamente consapevoli e comprendono appieno le direttive Mifid sulle valutazioni di conformità Esg. Per cercare di entrare nel merito di questa spinosa tematica, BLUERATING ha deciso di contattare alcuni tra i principali esperti in materia, distribuiti tra volti istituzionali e decani del settore. Abbiamo posto loro tre domande, ragionando anche sui possibili ulteriori interventi normativi; ecco le risposte che abbiamo ricevuto, punto per punto.

1 Sono sei anni che Mifid 2 è entrata in vigore. A suo avviso il recepimento dei principi cardine della direttiva da parte dell’industria italiana è stato effettivo?

2 Una recente ricerca di Oxford Risk ha evidenziato che i wealth manager europei stanno avendo difficoltà nel applicare appieno i criteri di adeguatezza agli investimenti propri clienti. Quali sono le principali difficoltà su questo fronte e come si può lavorare a suo avviso per migliorare la tutela dei risparmiatori?

3 Più in generale quale ritiene possano essere i punti chiave di sviluppo della normativa sui quali il legislatore dovrebbe concentrarsi nell’ottica di una potenziale Mifid 3?

1 La MiFID è stata applicata nella quasi totalità dei casi solo in modo formale. Questo è avvenuto, a mio avviso, in parte per responsabilità degli intermediari finanziari, ma in parte per responsabilità della stessa norma che enuncia principi di fatto inapplicabili. Gli intermediari finanziari sono società di capitale che hanno lo scopo di fare profitti per remunerare gli azionisti. La MiFID imporrebbe, in teoria, di anteporre gli interessi del cliente a quelli dell’intermediario. È evidente che l’intermediario, che è obbligato a rispettare la normativa, lo faccia in modo apparente, ma non sostanziale.

2 Quando si lavora con un numero molto elevato di clienti attraverso dipendenti che possono dedicare a ciascun cliente solo pochi minuti all’anno è inevitabile che il principio, sacrosanto, di fornire ai clienti raccomandazioni adeguate alle loro caratteristiche viene di fatto snaturato in un processo meccanico svuotato di qualsiasi significato sostanziale. La verifica di adeguatezza giunge a risultati paradossali nel momento in cui il tutto si traduce in un numero che identifica una fascia di volatilità del portafoglio, definita con una misura statistica, ovvero la deviazione standard (e tutti i suoi derivati come il noto Value-at-Risk, abbreviato come VaR). Poiché il valore della deviazione standard cambia nel tempo, si arriva all’assurdo che un portafoglio che inizialmente era considerato adeguato a quel cliente, poco tempo dopo, se i mercati scendono molto e la volatilità sale, può diventare inadeguato e l’intermediario potrebbe essere costretto a raccomandare di vendere le azioni scese molto, senza che sia realmente cambiato qualcosa tra le caratteristiche dell’investitore.

3 Tutta la chiave del discorso è che non si può chiedere al lupo di proteggere le pecore. La normativa MiFID affida la tutela dell’investitore al concetto di disclosure e di verifica di adeguatezza. In sostanza si ritiene che l’investitore si tuteli informandolo il più possibile ed obbligando gli intermediari a fare prima gli interessi dei clienti rispetto ai loro. È evidente che tutto diventa solo formalmente applicato, ma sostanzialmente si riduce a un po’ di firme su documenti predisposti dagli intermediari, il classico: “firmi qui, qui, qui e qui”. Documenti che nella grande maggioranza dei casi non vengono mai letti seriamente.

È necessario ribaltare l’approccio. Chi ha l’interesse a vendere prodotti non può essere quello che fornisce la consulenza per la scelta. Serve separare chi vende da chi consiglia. Gli investitori devono assumersi la responsabilità della scelta in prima persona, oppure affidarsi a un consulente che non può in nessun modo vendere prodotti, ma solo fare consulenza.

Sarebbe auspicabile che le autorità pubbliche si assumessero la responsabilità di identificare dei prodotti d’investimento standard per esigenze standard. Questo non avverrà certamente in un futuro ragionevolmente prevedibile perché le nostre autorità pubbliche sono troppo timide per assumersi responsabilità di questo tipo, ma in astratto, così come abbiamo mezzi pubblici per far andare sulla strada persone che non hanno la patente o non vogliono usare mezzi propri, allo stesso modo dovremmo dare la possibilità ad investitori che non vogliono scegliere autonomamente, né farsi dare consigli da consulenti indipendenti, di scegliere tra una serie di opzioni standard. In sintesi, bisognerebbe uscire dall’ipocrisia di chiedere a chi fa più o meno soldi consigliando questo o quel prodotto di fare gli interessi dei clienti, prima dei propri. È una pretesa assurda da parte della legge. Richiesta che nella sostanza non viene applicata e richiede un mare di scartoffie da firmare per documentare che formalmente la legge è stata applicata.

Qui le precedenti puntate del dossier:

Marco Tofanelli

Massimo Scolari

Luigi Conte

Massimo Arrighi

Elio Conti Nibali

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