“Abbiamo due tipi di impatti legati alla crisi ucraina”, ad affermarlo è Donatella Principe, Director – Market and Distribution Strategy di Fidelity International, che di seguito illustra nel dettaglio la view.
Quali sono gli impatti macroeconomici della crisi Ucraina? E che conseguenze avrà sull’inflazione e sulla gestione della politica monetaria?
Un impatto di primo livello che è relativamente limitato perché rispetto alla crisi ucraina del 2014 sono cambiate due cose:
La prima è che, avendo già imposto delle sanzioni alla Russia nel 2014, negli ultimi anni abbiamo creato una sorta di “scollamento” dalla Russia rispetto all’Europa. Nel 2013 la Russia pesava per il 6% delle esportazioni europee, due anni dopo questa percentuale era scesa al 3% e oggi più o meno siamo su quei livelli. Ma anche in termini di finanza la relazione con la Russia si è indebolita molto: l’esposizione delle Banche europee alla Russia era cresciuta moltissimo (di 6 volte) nel decennio fino al 2013, arrivando a un’esposizione superiore ai 140 miliardi, ma oggi risulta addirittura dimezzata. Quindi c’è un legame tra l’economia, intesa come esportazioni, e la finanza con la Russia molto più bassa, pesano rispettivamente adesso lo 0,6% e lo 0,5% del PIL europeo.
La seconda è la svolta più verso l’interno che la Russia è stata costretta a operare tra il 2014 e il 2016. Il crollo del prezzo del petrolio (da oltre 100$ al di sotto dei 30$) ha indebolito le finanze di Mosca, ha contribuito alla svalutazione del Rublo e reso onerose le importazioni. La Russia ha dirottato parte della sua domanda estera verso l’interno. Questo ha accelerato il processo di scollamento Russia-UE avviatosi con l’imposizione delle sanzioni.
Il problema vero della crisi ucraina è però l’impatto di secondo livello, quello che agisce attraverso il canale delle materie prime, perché se l’Occidente inasprisce le sanzioni contro la Russia, la Russia ha la possibilità di rispondere colpo su colpo tagliandoci le esportazioni. E la Russia ha oggi questa possibilità molto più che nella crisi di sette anni fa perché la sua sopravvivenza finanziaria dipende molto meno dall’Europa.
Infatti, dal 2014, avendole l’Occidente imposto di cercarsi dei nuovi alleati, l’abbiamo spinta a guardare ad Est più che ad Ovest e oggi la Russia è il secondo fornitore di petrolio per la Cina e il terzo fornitore di gas; e si stima che entro la fine di questo decennio avrà soppiantato Australia e Turkmenistan nel fornire gas alla Cina. Mentre nel 2014 un taglio delle forniture di gas e petrolio era per la Russia un’arma a doppio taglio, oggi c’è una forte asimmetria tra il danno ingente che può imporre all’Europa rispetto a quello auto-inflitto, grazie all’effetto compensazione dei suoi nuovi partner commerciali.
Questo vuol dire che la Russia può imporre un’ulteriore strozzatura alla catena dell’offerta globale, che già soffriva per la pandemia, e più in generale per il processo di deglobalizzazione che stiamo vivendo oramai da più di 10 anni. Le ricadute su America e Europa però saranno completamente differenti: l’America dopo il boom dello shell oil, partito con la rivoluzione del 2012, è indipendente sotto il profilo energetico. Certo, il prezzo della benzina sui massimi da 7 anni e mezzo non aiuta i cittadini americani, ma negli USA opera soprattutto un trasferimento interno di ricchezza: quando il prezzo del petrolio sale i soldi si spostano dal New Jersey al Texas. Non è la stessa situazione per l’Europa, che dipende dalle importazioni energetiche: quando il prezzo del petrolio (o del gas) sale, i soldi lasciano l’Europa per andare in Arabia Saudita e Russia.
L’Europa può cercare delle alternative, come aumentare le importazioni da Stati Uniti e Qatar di gas liquido, o far andare a pieno regime le centrali nucleari in Francia e Germania. Inoltre, l’Europa ha capacità produttiva inutilizzata nel settore del carbone in Germania e ci apprestiamo ad una primavera-estate dove l’eolico e il solare potrebbero supplire parzialmente.
Si tratta però di soluzioni tampone, parziali, costose e in alcuni casi non di immediata implementazione. Ci saranno comunque delle conseguenze: avremo l’inflazione più alta che agirà come una tassa sui consumi e sulla produzione. E l’inflazione non sarà spinta al rialzo solo dai costi energetici. Non va sottostimato neanche l’impatto dei beni alimentari.
Infatti, la Russia e l’Ucraina sono tra i maggiori produttori di cereali al mondo e la Russia è anche il maggior esportatore al mondo di fertilizzanti, dei quali ha già iniziato a tagliare le forniture. Quella indotta dalla crisi ucraina sarà però un’inflazione cattiva e non buona: infatti, c’è un’inflazione buona, che nasce dal lato della domanda e che le Banche Centrali possono curare; e un’inflazione cattiva, che nasce da strozzature dal lato dell’offerta e che le Banche Centrali non possono curare.
Già prima della crisi ucraina la metà dell’inflazione europea era inflazione cattiva e anche per questo la Banca Centrale europea la considerava più transitoria: una volta superati a pieno gli effetti del Covid e delle tensioni con la Russia sarebbe rientrata. Questo spiega perché già prima della crisi ucraina la BCE era molto più timida della Fed nell’approcciare l’avvio di una stagione restrittiva di politica monetaria, supportata anche dal fatto che non vi fossero neanche i presupposti tecnici per ipotizzare un rialzo dei tassi.
Infatti, la revisione degli strumenti di politica monetaria completata la scorsa estate richiede tra le 3 condizioni per un rialzo dei tassi che le previsioni d’inflazione siano superiori al target (2%) per tutto il periodo di osservazione. Condizione non rispettata sulla base delle previsioni che ci ha comunicato a dicembre la BCE. Tuttavia, la situazione attuale riduce ulteriormente gli spazi di manovra della BCE, perché, di fronte a un rischio di rallentamento dell’economia e di un’inflazione rispetto alla quale la politica monetaria è inefficace, sarebbe assolutamente controproducente da parte della BCE pensare di andare a toccare oggi il costo del denaro. Questa situazione non è però neutrale neanche per le decisioni della Fed ma soprattutto per l’aspettativa del mercato sulla politica monetaria americana: infatti, ancorché la FED abbia anticipato per quest’anno solo tre rialzi del costo del denaro, solo qualche giorno fa il mercato ne prezzava sette.
Non solo: il mercato scommetteva anche che gli interventi non sarebbero stati graduali, ma vi sarebbe stato un primo rialzo di 50 pb; e c’era addirittura una parte del mercato che scommetteva che la FED facesse il primo intervento al di fuori di un meeting ufficiale (FOMC). L’effetto che ha la crisi ucraina è di normalizzare le aspettative sulla politica monetaria eliminando tutti questi scenari di coda.
Questo fattore esogeno impatta sui mercati finanziari?
L’esperienza e l’analisi di situazioni simili nel passato ci insegna che la reazione dei mercati finanziari tende a essere sempre superiore all’impatto finale che si ha nell’economia reale. Studi delle crisi di mercato “da guerra”, che vanno indietro fino alle Seconda Guerra Mondiale, ci dimostrano che storicamente le correzioni del mercato tendono a essere brevi e vengono recuperate anche in tempi relativamente rapidi. Questo è stato vero anche per tutte le tensioni geopolitiche recenti, dalla primavera araba nel 2010, alla Siria nel 2011 e alla stessa Ucraina nel 2014. Ma possiamo anche ripensare ai tragici eventi dell’11 Settembre. Nel lungo periodo comprare sul picco della paura ha sempre pagato. E a questo proposito possiamo tornare indietro di quasi due anni fa, al 20 febbraio 2020 quando è iniziato il crollo dei mercati legato al Covid. Il 9, il 12 e il 16 marzo del 2020 abbiamo avuto due black Monday e un black Thursday e alla data del 23 marzo il mercato aveva perso in un mese 1/3 del suo valore. Da quel 23 Marzo del 2020 i mercati hanno messo a segno un rally in media del 90%, compensando 3 volte la perdita. Ma ci sono indici con performance addirittura a tre cifre.
Ciò non toglie che nel breve periodo assisteremo a un aumento del premio per il rischio geopolitico e a un incremento della volatilità. La volatilità era già salita a causa dell’incertezza portata sul mercato dal brusco cambio di rotta della FED, rompendo la soglia critica dei 30 punti. Questo non cambia l’approccio che dobbiamo avere sul mercato, anzi rafforza il messaggio di focus sulla qualità e sui fondamentali, perché titoli di bassa qualità e titoli cari sono i più esposti in situazioni d’incertezza e di volatilità. Infine, vanno sottolineati 2 elementi:
Il cambio di rotta della FED aveva già provocato una reazione negativa sul mercato. La flessione delle ultime settimane aveva riportato indietro le lancette dell’orologio di due anni, annullando nelle valutazioni tutto il rally post Covid.
La previsione per il 2022 era di un anno di utili in crescita su tassi addirittura a premio rispetto al decennio pre-covid. Un tasso di crescita quindi sufficientemente elevato da rappresentare un buon cuscinetto in grado di assorbire anche le ricadute che vedremo in queste settimane.
Questi due fattori sono importanti perché sappiamo che i mercati azionari sono spinti al rialzo da 3 fattori: liquidità, bassi rendimenti e utili. Nell’ultimo decennio gli indici sono saliti sulla spinta di una forte liquidità, che ha mantenuto contratti i rendimenti. Oggi che la liquidità inizia a esser drenata da mercato e assistiamo a una leggera risalita dei rendimenti: ma, grazie agli utili, al mercato non solo non manca un supporto ma quel supporto è “sano”. Specie se si combina con un livello delle valutazioni tornato sotto controllo.
In questo contesto il focus sulla qualità e sull’analisi fondamentale diventano non solo parametri di selezione degli investimenti ma anche strumenti di gestione del rischio: in un contesto di volatilità e incertezza solidità del business e corrette valutazioni rappresentano un ammortizzatore per l’andamento dei titoli. Qualità della gestione vuol però dire anche diversificazione di portafoglio. Mai come in questo momento per esempio paga una diversificazione geografica crescente verso l’area asiatica. L’Asia è, infatti, molto più isolata rispetto al rischio geopolitico rappresentato dall’Ucraina e presenta oggi un netto trend di crescita economica a premio rispetto all’Occidente, dal quale la distanzia anche la possibilità di politiche monetarie di supporto (come dimostra il recente taglio del costo del denaro in Cina). Inoltre, a livello di mercato l’Asia lo scorso anno ha pagato lo scotto della triplice stretta della Cina (monetaria, fiscale e regolamentare): questo vuol però dire che parte da un livello di valutazioni compresso sia rispetto alla media storica che ai mercati occidentali, fattore che rappresenta un valido cuscinetto in questo contesto di volatilità indotta da un rischio geopolitico esogeno.