Greenwood (Invesco): “Il Qe della Bce è inadeguato per l’Eurozona”

“L’ulteriore ampliamento del Quantitative easing adottato dalla Bce a marzo, che probabilmente secondo Draghi si protrarrà costante fino alla fine del 2017, continua a rivelarsi per i mercati e l’economia dell’area euro meno stimolante di quanto dovrebbe a causa di fondamentali manchevolezze strutturali. Non è casuale che le due principali aree in cui si riscontrano tassi d’interesse negativi, crescita inferiore alla media e quasi deflazione – ossia Giappone e zona euro (più le tre economie legate all’euro di Svezia, Danimarca e Svizzera) – siano anche le economie in cui le banche centrali primarie hanno attuato versioni inadeguate di Qe”. E’ questa l’analisi di John Greenwood, Capo economista di Invesco, nell’outlook macroeconomico del II trimestre 2016.
Il problema fondamentale è che il programma attuato da Bce e BoJ utilizza i normali canali di creazione del credito del sistema bancario (che non funzionano), facendo forza sui tagli dei tassi d’interesse, anziché mettere nuovo denaro nelle mani di imprese e famiglie, tramite acquisti diretti di asset da parte di queste entità non bancarie, come invece hanno fatto in pratica la Fed e la BoE”, spiega Greenwood. “In altre parole, sarebbe meglio che la Bce evitasse le banche, anziché affidarsi a esse per creare prestiti e quindi depositi in una fase in cui sono gravate da bilanci compromessi”.
Le divergenze sul versante delle politiche monetarie tra Fed e BoE da una parte e Bce e la BoJ dall’altra, implicano, pertanto, una probabile accentuazione della volatilità sui mercati valutari, obbligazionari e azionari. Il quadro complessivo sarà caratterizzato da crescita e inflazione a perduranti livelli contenuti a fronte del contesto di bassissima crescita degli investimenti e del credito degli ultimi anni”.
In questo contesto, sembra improbabile che il rimbalzo del 2,1% registrato dalla produzione industriale a gennaio (dopo i cali dello 0,5% a dicembre e dello 0,2% a novembre) possa perdurare, come indicato dalla flessione del Pmi (Indice dei Responsabili degli Acquisti) al minimo degli ultimi 12 mesi di 51,2 a febbraio e 51,6 a marzo. In Europa, inoltre, il mercato del lavoro continua a compiere soltanto modestissimi progressi: la disoccupazione è scesa dal picco di 12,1% ad aprile 2013 al 10,3% di gennaio 2016, in netto contrasto con i cali più marcati osservati negli Stati Uniti e nel Regno Unito negli ultimi cinque anni.
Un fattore che avrebbe dovuto probabilmente apportare un maggiore contributo alla crescita dell’area euro è stato il deprezzamento dell’euro, sceso da oltre 1,30 dollari Usa nel 2014 a un range di 1,06-1,14 per gran parte del 2015 e dall’inizio del 2016 a ora.
Quanto alle esportazioni dell’Eurozona, queste hanno registrato soltanto una modesta ripresa a metà 2015, subendo poi un nuovo rallentamento dovuto all’assenza di crescita dei volumi all’estero: le sole variazioni dei prezzi possono fare poco per rilanciare la domanda dall’Europa. “Di conseguenza, le esportazioni della zona euro, in linea con la performance stagnante del commercio globale negli ultimi anni, sono rimaste sostanzialmente ferme tra il 2012 e la metà del 2015. Al contempo, nel 4° trimestre del 2015 le partite correnti sono salite a un surplus del 3,0% del Pil, sulla scia della debolezza delle importazioni (derivante da una domanda interna inferiore alla media) e di una ripresa delle esportazioni”, conclude Greenwood.

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