Mercati asiatici, prudenti ma non troppo

John Holmes, ex ambasciatore britannico in Francia e ora sottosegretario per gli affari umanitari alle Nazioni Unite, ha dichiarato che la crisi alimentare che ha colpito il mondo negli ultimi mesi non è un fenomeno passeggero, ma è anzi l’ennesimo prodotto della globalizzazione, ovvero delle mutate geografie economico-industriali.

Il suo intero discorso è così sintetizzabile: “dobbiamo tristemente accettare che è arrivato il momento di mettere la parola fine al cibo a buon mercato. Emergono le classi medie in India e Cina e la richiesta di cibo di qualità cresce esponenzialmente. Gli aumenti del petrolio fanno sì che i fertilizzanti, la lavorazione meccanica e il successivo trasporto delle derrate alimentari risultino sempre più onerosi. I raccolti soffrono a causa delle cattive condizioni atmosferiche e la superficie delle terre coltivate destinate a produzioni alimentari si e’ ridotta a causa della recente entrata in scena dei bio-carburanti”.

E con questo scenario gli indici della borsa americana cosa fanno? Giustamente salgono. E salgono perché gli utili delle aziende legate al petrolio crescono come mai nella storia.

Vogliamo ironizzare su quanto dichiarato da John Holmes, magari sfruttando l’omonimia con un suo non troppo illustre predecessore e citando una famosa intercettazione dei “furbetti del quartierino” oppure vogliamo dare un occhiatina ai numeri?

I numeri a prima vista sono fantastici. Stellari. Ma bisogna fare attenzione nel credere che assisteremo per sempre al quotidiano record giornaliero di petrolio e aziende petrolifere, perché non dobbiamo ignorare che escludendo i profitti di Exxon Mobil Corp., Chevron Corp. e ConocoPhillips, gli utili delle altre aziende statunitensi risultano i peggiori in almeno un decennio e che senza i 70 miliardi di dollari guadagnati dalle società petrolifere negli ultimi due trimestri, gli utili delle aziende inserite nell’indice Standard & Poor’s 500 sono calati di oltre il 25% registrando i ribassi trimestrali più marcati dal 1998.

Non dimentichiamoci che nel 1980 venne introdotta un’imposta sulle società petrolifere a causa dei loro enormi profitti guadagnati in seguito al forte aumento dei prezzi del petrolio, provocato allora dall’ embargo petrolifero arabo. Imposta peraltro levata solo 8 anni più tardi da Reagan. Non dimentichiamoci neanche dell’imposta sui profitti (windfall tax) che il Governo Blair introdusse nel 1997 sulle società privatizzate da Margaret Thatcher, (nella foto) proprio in seguito a una revisione della regolazione che aveva evidenziato la presenza di notevoli extra-profitti nei servizi di pubblica utilità. E soprattutto non dimentichiamoci che come per i subprime potremmo venire chiamati improvvisamente a dover rendere conto di guadagni troppo facili orchestrati sulle disgrazie altrui.

A tal proposito era addirittura troppo facile prevedere il successo di questa notte dell’ offerta pubblica iniziale di Asia Cement (China) Holdings Corp., secondo produttore di materiale da costruzione di Taiwan, che quota la propria unità produttiva cinese con un tempismo impressionante e con un +62% al debutto.

A cura di Roberto Malnati, advisor della Sicav CB Accent Lux – Asian Century

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