Quale ruolo per le banche centrali quando l’economia inizia a rallentare?

A cura di Unigestion

Per un decennio abbiamo vissuto un periodo di attivismo delle banche centrali, che ha sostenuto i mercati finanziari in un modo quasi equivalente al ciclo di investimenti basati sul credito degli anni ’90. Dieci anni sono tanti e ci siamo progressivamente abituati a una mentalità molto particolare che molti chiamano “le cattive notizie sono buone notizie” (dall’inglese, bad news is good news). Dal 2008 le banche centrali hanno reagito ai periodi di macro decelerazione sostenendo l’economia e i mercati finanziari in modo innovativo secondo gli standard classici. Oggi, tuttavia, il ciclo mondiale sta rallentando come non abbiamo mai visto in questi ultimi anni. L’Eurozona è stata l’unica area a rallentare nel 2011, così come la Cina nel 2015. Questa volta però Stati Uniti, Cina ed Eurozona stanno mostrando contemporaneamente segnali di rallentamento del macro momentum. Se ciò durerà, le cattive notizie diventeranno vere e proprie cattive notizie, poiché guadagni deboli trascinano le valutazioni azionarie verso il basso.

Per noi, la domanda chiave ora è: dov’è la band invisibile che separa un mondo che può evitare rallentamenti utilizzando il QE da un mondo in recessione, nel quale le banche centrali possono avere solo un controllo limitato? Attraversare questa band invisibile trasformerà le cattive notizie in cattive notizie.

Le cattive notizie sono buone notizie…

La Fed è stata la prima a fornire stimoli monetari straordinari nel 2009 e, da allora, la maggior parte delle banche centrali del mondo sviluppato ha fatto altrettanto. Dalla grande crisi finanziaria in poi, quando iniziava una macro decelerazione in una data regione, la reazione di ogni banca centrale è stata quasi sempre la stessa, per dare maggiore sostegno ai mercati finanziari nel tentativo di sostenere l’economia. A nostro avviso, i banchieri centrali di tutto il mondo hanno dimostrato un’impressionante capacità di innovazione nel corso di questo periodo. Da tassi più bassi, tassi negativi, acquisti diretti di obbligazioni, acquisti diretti di azioni, fino al controllo diretto della valuta… le banche centrali hanno utilizzato una lunga lista di tecniche di politica monetaria nuove e creative per cercare di aiutare il mondo a guarire le profonde ferite create dalla crisi economica del 2008.

Vivere sotto questo intensa cura a base di liquidità sta, tuttavia, avendo un effetto collaterale significativo a nostro avviso, che porta all’emergere di una nuova fraseologia per qualificare le loro azioni: “le cattive notizie sono buone notizie”. Questa formulazione molto semplice ha implicazioni molto importanti in termini di comportamento dei player di mercato: qualsiasi peggioramento degli indicatori economici ha aperto la porta ad un nuovo ciclo di interventi sui mercati. L’inversione a “U” della Fed tra dicembre 2018 e gennaio 2019 ne è l’esempio perfetto. La situazione macroeconomica degli Stati Uniti rimane positiva, come indicato dal nostro growth nowcaster per l’area: sta effettivamente rallentando da novembre 2018, ma gli Stati Uniti dovrebbero registrare ancora una crescita positiva per un paio di trimestri – view sostenuta dalla retorica della Fed durante il FOMC (Federal Open Market Commitee) di dicembre. La formazione di un’aspettativa recessiva sui mercati azionari in dicembre è stata tuttavia sufficiente per indurla a cambiare significativamente formulazione in gennaio, passando da falco a colomba – facendo così eco alla tradizione ormai decennale della “Fed put” di Greenspan. Nel mese di gennaio, i mercati hanno registrato un notevole incremento dei volumi grazie a questa nuova linea di comunicazione. Il rallentamento cinese del 2015 ha avuto un impatto simile sulla Fed. Le cattive notizie sono davvero buone notizie, basta insistere e convincere la banca centrale vendendo azioni[1].

…finché non diventano cattive notizie per davvero

Quando diciamo che i mercati hanno formato aspettative recessive, parliamo ovviamente dei mercati azionari. E naturalmente in questi giorni, tutti gli occhi sono puntati sulla Fed, nonostante il fatto che la maggior parte della decelerazione macro stia avvenendo ad est dell’Oceano Atlantico. Abbiamo comunicato in merito alla decelerazione a cui stiamo assistendo da tempo nei nostri indicatori: l’Eurozona ha iniziato a peggiorare nel febbraio 2018, la Cina rimane in una situazione di crescita sub-potenziale ma è stabile, mentre gli Stati Uniti hanno iniziato a rallentare nel novembre 2018. La domanda che attualmente ci stiamo ponendo riguarda la band invisibile che traccia il confine tra una situazione che può essere riparata facendo ricorso a maggiori stimoli (crescita lenta con inflazione limitata) da una situazione in cui tale correzione non funzionerebbe più. In ogni periodo di recessione degli ultimi 100 anni, nessuna banca centrale è mai stata in grado di avere un livello di controllo così elevato. Durante queste fasi, uno sforzo coordinato tra governi e banche centrali può contribuire ad alleviare parte dei danni all’economia ed ai mercati, ma nel complesso la storia dimostra che una recessione è inevitabile nel momento in cui inizia. Inoltre, vi sono buone ragioni per il seguente motivo: poiché la crescita economica è in territorio negativo, i guadagni cominciano a diminuire tanto più che i costi – come i salari – reagiscono in modo ritardato. L’aumento dei costi e il rallentamento della crescita delle vendite creano a loro volta un effetto forbice sui ricavi.

A cosa guardare d’ora in avanti?

Negli Stati Uniti si stanno registrando degli “annuvolamenti” a seguito dei tipici segnali recessivi. In primo luogo, è probabile che il mercato immobiliare statunitense registrerà una crescita negativa per la prima volta dopo molti anni, come segnala il nostro US growth nowcaster. In secondo luogo, le intenzioni di investimento stanno diminuendo e solo l’8%dei dati utilizzati nella componente di investimento del nostro nowcaster sta migliorando; un buon esempio di ciò è il tasso di utilizzo della capacità negli Stati Uniti, che ha segnato il primo calo dalla sua ripresa nel 2015. La Fed probabilmente vi presterà molta attenzione. Il deterioramento degli indicatori decisionali di lungo periodo è storicamente il primo segnale di una recessione imminente. Per il momento, questi sono gli unici segnali gravi e ci sono pochi altri numeri che raccontano una storia molto diversa, come l’indice US ISM Manufacturing. La transizione da una fase di rallentamento a una di vera e propria recessione può richiedere tempo. Il raggiungimento di questo punto sarà probabilmente lento, rendendo i casi di investimento sempre più difficili, dato che la crescita rimane positiva e le banche centrali utilizzano il loro arsenale, mentre la decelerazione diventa sempre più evidente. Ma quando attraverseremo quella band invisibile, le cattive notizie diventeranno di nuovo cattive notizie. Fino ad allora rimaniamo prudenti.

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