Lo scorso 13 maggio, Cobra Automotive Technologies, uno dei maggiori operatori a livello internazionale nel settore delle soluzioni di sicurezza per il mercato automotive, ha ceduto l’8,3% del capitale a Synergo SGR, gruppo attivo nel private equity che tra i suoi partner conta Gianfilippo Cuneo.
Se l’operazione di per se può essere inquadrata nella consueta attività core dei fondi di private equity, in verità l’accordo presenta aspetti interessanti che caratterizzano le operazioni e l’attività di Synergo. Operatore atipico nel contesto dei fondi di private equity (spesso citati sui giornali solo per le grandi operazioni di leverage buyout) l’attività di Synergo si discosta dal modello di operazioni “tutte a leva” puntando di più sulle qualità dei singoli imprenditori.
HEDGE ha sentito Paolo Zapparoli, amministratore delegato di Synergo SGR che ha spiegato quali sono i driver alla base delle loro scelte di investimento.
Per definizione i fondi di private equity operano su società non quotate: qual’è la ratio dell’investimento in Cobra Automotive?
Non è tipico per un fondo di private equity operare con società quotate: infatti noi ci reputiamo un fondo atipico. In Synergo non crediamo che esistano società di serie A e società di serie B, contrariamente crediamo che esistano imprenditori più o meno bravi e imprenditori eccellenti. Noi reputiamo di aver individuato in Serafino Memmola e Carmine Carella (rispettivamente presidente e amministratore delegato di Cobra, ndr) due eccellenti manager. Tutto il management di Cobra inoltre ha una visione chiara del futuro del settore in cui opera e quella che sarà la collazione sulla scena internazionale. Dal canto nostro, cercheremo di offrire un contributo misto tra l’operativo e lo strategico, cercando di sviluppare quei mercati non ancora presidiati dalla società. Uno dei modi per raggiungere l’obiettivo sarà anche la crescita per linee esterne.
In un momento particolarmente difficile per le quotazioni delle small cap Made in Italy, molte aziende stanno riflettendo se continuare o meno a restare quotate: qual è la strada giusta da percorrere?
Premetto che il nostro ingresso in Cobra non è finalizzato al delisting della società. Sull’argomento riporto la mia esperienza professionale che in quindici anni mi ha portato a confrontarmi con situazioni similari nei mercati emergenti. Quello che abbiamo assistito sul nostro mercato è già successo altre volte all’estero e anche con intensità maggiore.
Aggiungo che molte società oggi si quotano quando il mercato è rialzista con un approccio molto opportunistico senza avere una strategia di sviluppo a lungo termine. Ovviamente quando la situazione cambia, il top management o la proprietà si pongono il problema se rimanere o meno in Borsa. Ritengo comunque che essere in Borsa sia sempre un valore aggiunto per l’azienda quotata. Ciò non toglie che esistono delle situazioni particolari dove può avere senso il delisting.
Banche d’affari e fondi hedge hanno subito pesanti perdite negli ultimi mesi: qual è lo stato di salute dell’industria del private equity e quali prospettive per il futuro?
Non abbiamo registrato un particolare calo nelle transazioni di medie dimensioni mentre per quelle più grandi (peraltro quasi assenti nel mercato italiano) c’è stato un calo sensibile. Sul fronte del credito, inoltre, il mercato italiano è assolutamente liquido e non esistono problemi per reperire i mezzi; credo invece che chi ha sofferto di più sono stati quei fondi che utilizzano il concetto di leverage buyout: ovvero cercare di fare soldi unicamente attraverso la leva finanziaria.
In questo senso ritengo che sia finita l’epoca in cui è possibile fare soldi solo ricorrendo alla leva senza aggiungere capacità operative all’interno della società. Mentre per i fondi come i nostri, dove abbiamo una teoria di fondo e una struttura di approccio all’investimento manageriale, le opportunità ci sono.
Quale ruolo dovrebbero avere il private equity in Italia e come giudica l’attività nel nostro paese?
La maggioranza degli imprenditori che noi incontriamo controllano società di medie dimensioni ma al tempo stesso leader nei loro settori e in grado di competere sui mercati internazionali.
In generale credo che il ruolo del private equity potrebbe essere quello di andare a scovare quelle aziende interessanti, con un management forte e recettivo al cambiamento ed aiutarli ad espandere la propria attività anche fuori dai mercati nazionali.
Cosa ne pensa della proliferazione di strumenti che offrono esposizione ai fondi di private equity anche ai piccoli risparmiatori?
Anche il settore del private equity sta continuando a maturare per arrivare, attraverso strade diverse, al mercato retail.
Questo lo vedremo sempre di più in futuro e lo vediamo già adesso all’estero dove i fondi quotati sono un’opportunità di investimento accessibile a tutti. Come in altri campi, però, ritengo che la differenza tra un buon investimento e non ricade sempre sulle persone: è quindi importante trovare delle persone capaci di individuare e selezionare i fondi giusti capaci di stare sul mercato e fare soldi. Per questo motivo giudico positivo l’intervento di una figura che si interponga tra gli investitori e i singoli fondi, in modo da evitare che venga fatta la “scommessa” sul singolo fondo. Concludo aggiungendo che si tratta comunque di un business rischioso.
Caso Alitalia: crede davvero alla cordata italiana?
E’ un discorso soprattutto di volontà politica ma credo che la cordata ci sarà. Al tempo stesso non sono convinto che sia facile fare qualcosa che abbia un valore economico per il paese, nel senso che qualsiasi operazione fatta da un terzo richiederebbe interventi “brutali”. Mi riferisco, per esempio, al mercato statunitense dove molte compagnie aeree sull’orlo del tracollo sono divenute storie di successo ma solo dopo una profonda e dolorosa cura dimagrante che ha avuto effetti traumatici nel breve periodo.