“Stabili” per contratto

Claudio Morpurgo

 

 

Il mondo del diritto del lavoro promuove sempre più clausole “creative”, finalizzate a tutelare gli interessi ritenuti dalle parti, di volta in volta, più meritevoli. Chiaro che in proposito rilevano in modo significativo aspetti quali la durata del rapporto, la fidelizzazione del dipendente e la stabilità del vincolo.

 

Blindatura dei talenti

Tra queste pattuizioni originali, una delle principali, soprattutto nel settore del credito e degli intermediari finanziari, è rappresentata dalla cosiddetta “clausola di stabilità” (talvolta viene denominata anche patto di durata minima o clausola di retention) con la quale le parti si impegnano, per un certo termine minimo stabilito, a non recedere dall’accordo sottoscritto.

Così facendo, il rapporto di lavoro (subordinato o parasubordinato), altrimenti “terminabile” con l’osservanza del mero periodo di preavviso (come previsto dal Ccnl o dal contratto individuale), diviene maggiormente “blindato”: il datore di lavoro ha la certezza di avere un collaboratore fidelizzato per un arco temporale rilevante e quest’ultimo, da parte sua, si sente ulteriormente tutelato nella stabilità della sua attività. Di solito i patti di stabilità sono bilaterali, cioè concernono un impegno reciproco delle parti.

A seconda, poi, della forza della negoziazione, gli stessi possono assumere natura unilaterale e, cioè, prevedere un’obbligazione a carico del solo datore di lavoro o del manager.

Si tratta infatti di accordi pienamente legittimi e questo anche qualora l’impegno di non recedere per un determinato periodo sia assunto dalla parte debole del rapporto, cioè il lavoratore.

 

Paletti della giurisprudenza

Al riguardo, la giurisprudenza ha chiaramente affermato che ogni lavoratore può liberamente disporre della propria facoltà di recesso, pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purché limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nell’ipotesi di sua violazione.

Nella pratica, comunque, considerando che si tratta di pattuizioni che pur sempre limitano la libertà del lavoratore, si cerca di eliminare ab origine il rischio di una loro non congruità.

Per farlo, quando il datore di lavoro “compri” un impegno di retention in capo a un suo collaboratore, tende a farlo o assicurando la reciprocità o erogando un corrispettivo retributivo ovvero prevedendo altre tipologie di vantaggi non direttamente monetari, quali l’assolvimento di obblighi formativi, una promozione o un percorso di crescita.  Tutto questo perché deve sempre essere presente una sorta di corrispettività che va valutata alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni contrattuali, così scongiurando la sussistenza di impegni meramente simbolici e non proporzionati al sacrificio assunto dal dipendente.

 

Penali per l’inadempienza

L’effetto principale di questa particolare tipologia di accordi si verifica allorché le parti violino l’impegno, cioè recedano senza giustificazione e anticipatamente.

In questo caso vengono previste contrattualmente penali a carico della parte inadempiente che possono essere rappresentate dal pagamento delle retribuzioni mancanti sino al sopraggiungere del termine garantito ovvero in importi diversamente modulati.

 

Due eccezioni per il recesso

Va detto che gli accordi di durata minima, non sono assolutamente inattaccabili. Vi sono, infatti, due casi nei quali la possibilità di recedere prima della scadenza del termine pattuito risulta, invece, del tutto legittima, non dando alcun versante ad eventuali ipotesi di condanna di tipo risarcitorio.

Nello specifico, questa possibilità è ammessa, sotto un primo profilo, nell’evenienza di una impossibilità sopravvenuta della prestazione (anche parziale) che si verifica quando, per esempio, il lavoratore versi in una situazione di invalidità fisica o psichica o mentre, lato azienda, l’attività di adibizione non risulti più prevista. In secondo luogo, la parte potrà recedere ante tempus di fronte a una giusta causa (di licenziamento o di dimissioni)  che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto lavorativa.

La maggioranza dei contenziosi  riguarda proprio la sussistenza o meno di una giusta causa e cioè di una situazione che assicuri la libertà alla parte recedente. Secondo la giurisprudenza è proprio la configurabilità di una giusta causa di recesso il limite a una clausola di stabilità. In altre parole, è illegittimo un accordo tra le parti orientato a escludere l’operatività di un patto in presenza di fatti qualificabili come giusta causa.

Di fronte al venire meno del vincolo fiduciario, quindi, non potendosi introdurre una particolare ipotesi responsabilità oggettiva, nessun accordo di durata minima può essere mantenuto nel tempo.

 

 

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