A che punto sono i Bric? L’analisi di Raiffeisen

A cura di Raiffeisen Capital Management
I mercati azionari in tutto il mondo hanno iniziato l‘anno nuovo all’insegna di forti ribassi dei corsi. Soprattutto nelle prime due settimane le quotazioni in numerose borse sono letteralmente crollate, prima di iniziare una forte ripresa nella seconda metà del mese. Il movimento al ribasso è stato guidato – c’è poco da stupirsi – ancora una volta dalle borse cinesi che hanno subito elevate perdite. I mercati azionari sviluppati e le borse dei paesi emergenti a gennaio sono calati, nel complesso, con la stessa intensità – rispettivamente poco oltre il 5%.
Gli argomenti che sono stati fatti circolare per spiegare questa situazione sono cambiati poco rispetto ai mesi passati: preoccupazioni sull’economia cinese e la congiuntura mondiale, il prezzo del petrolio in caduta libera, timori su ulteriori rialzi dei tassi d’interesse e la nuova forza del dollaro, possibili altre svalutazioni dello yuan cinese e il peggioramento delle previsioni sugli utili per le aziende nei paesi emergenti (ma sempre più anche nei mercati sviluppati). Ci si chiede, però, sempre più spesso fino a che punto le banche centrali siano comunque (ancora) in grado di sostenere nel lungo periodo l’economia reale e i mercati finanziari.
Riguardo ai dati dell’economia cinese, che per molti paesi emergenti sono molto importanti, non ci sono stati, tuttavia, grandi sorprese. La crescita continua a rallentare, ma è ancora nettamente positiva e il passaggio da un’economia trainata dalle esportazioni a una maggiormente orientata ai consumi interni continua a fare progressi. Nonostante i timori, i dati disponibili non suggeriscono ancora nessun crollo dell’economia cinese. La paura che la Cina possa trascinare verso il basso l’economia globale finora non rispecchia dunque la realtà; al contrario. Il paese continua a essere una delle locomotive della crescita a livello globale – anche se con intensità decisamente inferiore.
Nel sistema finanziario globale sembra evidenziarsi una crescente carenza di liquidità in dollari USA. Proprio a causa del forte aumento del debito in dollari USA delle imprese in molti mercati emergenti, esiste il potenziale di una spirale, nata dall’eccesso di domanda, che spinge ulteriormente al rialzo il dollaro creando così ulteriore domanda per poter far fronte ai debiti esistenti o per ripagarli. In questo contesto si osserva che le riserve valutarie della Cina nel 2015 sono calate di circa 500 miliardi di dollari a causa dei deflussi di capitale verso l’estero. Considerato che le riserve valutarie ammontano tuttora a oltre 3000 miliardi di dollari ciò non sembra ancora un problema grave.
Il FMI parte comunque dal presupposto che per il normale funzionamento dell’economia cinese sono necessari circa 2800 miliardi di dollari. Inoltre, i deflussi dei capitali esercitano una forte pressione al ribasso sullo yuan. Uno yuan nettamente più debole potrebbe, a sua volta, mettere in moto una nuova spirale di svalutazione in Asia e creare una nuova spinta deflazionistica per l’intera economia mondiale. Negli ultimi mesi l’andamento dello yuan è, quindi, diventato un barometro sempre più importante per il sentiment degli investitori a livello mondiale.
D’altra parte, l’inclusione della moneta cinese nel paniere di valute del FMI, praticamente già decisa, potrebbe di nuovo aumentare significativamente gli afflussi di capitale verso la Cina a lungo termine, tanto più, se in futuro all’interno degli indici borsistici globali si dovesse dare più importanza anche ai mercati azionari cinesi. Questi fattori favorevoli allo yuan dovrebbero comunque avere effetto solo nel corso dei prossimi anni.
Cina. Per quanto riguarda la Cina, l’andamento della valuta rimane uno dei temi dominanti del momento – oltre, ovviamente, al forte ribasso dei corsi sui mercati azionari cinesi. La banca centrale e il governo hanno avviato nuove misure per rendere più difficili i deflussi dei capitali verso l’estero e nelle prime settimane dell’anno nuovo questo sembra dare buoni risultati. Con un calo di circa 100 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno, le riserve valutarie sono diminuite molto meno di quanto anticipato dal mercato (120 miliardi) e nei prossimi mesi si attendono cali nettamente più bassi.
Il governo cinese non sembra inoltre essere interessato a una massiccia svalutazione della valuta, ma semmai a un leggero e soprattutto graduale indebolimento dello yuan, cosa che in fin dei conti correggerebbe solo lievemente il forte apprezzamento degli ultimi 10 anni. Tuttavia, è sempre più diffusa l’opinione che definisce tutto ciò soltanto un’illusione del governo di Pechino, tra cui diversi importanti gestori di hedge fund. Questi ultimi prevedono che l’enorme espansione del credito (decuplicazione negli ultimi 10 anni) prima o poi porterà inevitabilmente a elevati default. In questo modo, considerando i circa 34.000 miliardi di dollari USA di prestiti in essere, potrebbero rapidamente accumularsi svariate migliaia di miliardi di dollari in termini di fabbisogno di ricapitalizzazione. Tutto questo si svolgerebbe quasi esclusivamente nella valuta locale, in modo tale da non aver direttamente bisogno di dollari USA.
Di fronte all’enorme volume dovrebbe, però, finire sotto pressione il cambio della moneta cinese. Un tale scenario, con una svalutazione del 30% e oltre, non viene visto, tuttavia, come una completa esagerazione dal governo di Pechino. Infine, la verità, come tante volte nella vita, sarà probabilmente una via di mezzo. Verosimilmente, il problema potrebbe dunque essere molto più grave di quanto ammesso da Pechino, ma, a sua volta, non così disastroso da risultare per forza in una svalutazione così drammatica. Mentre il governo al momento sembra ancora avere il controllo quasi completo sulla valuta ed evidentemente anche sull’economia, ciò non si può evidentemente dire dei mercati azionari. Nonostante tutte le contromisure, a gennaio i corsi azionari a Hong Kong e sul continente hanno subito significativi ribassi. Le azioni A di Shanghai hanno chiuso il mese con una perdita di oltre il 20%. Le azioni H di Hong Kong hanno ceduto il 15% e di conseguenza si trovano sui livelli più bassi dal 2009.
India. Per la prima volta da 13 mesi è calata la produzione industriale in India; questo è, però, in primo luogo da attribuire a effetti statistici speciali. I prezzi al consumo hanno ripreso a salire leggermente contrariamente al trend degli ultimi mesi, ma è soprattutto una conseguenza delle vaste inondazioni in alcuni Stati dell’Unione. La politica fiscale sembra essere abbastanza efficace; il deficit di bilancio del 2015/2016 dovrebbe risultare inferiore alle previsioni. In compenso, a dicembre è significativamente aumentato il disavanzo con l’estero e ciò nonostante il calo dei prezzi del petrolio. La causa è da ricercare nel forte aumento delle importazioni e allo stesso tempo a esportazioni sostanzialmente stabili. È poco probabile che la banca centrale si attivi in materia di tassi d’interesse prima della presentazione del bilancio per l’esercizio 2015/2016 in parlamento. Il mercato azionario indiano ha perso circa il 4%, in linea con il trend globale. Mentre hanno ceduto soprattutto le azioni telecom e le società di infrastrutture, il settore IT ha fatto registrare addirittura un modesto rialzo.
Brasile. In Brasile continuano a esserci pochi spiragli di luce e per di più adesso si è aggiunta anche la diffusione esplosiva delle infezioni da virus Zika, come ulteriore problema per lo stato d’animo della società, il sistema sanitario e potenzialmente l’industria del turismo. Dopo la contrazione del 3,6% dell’anno passato, nel 2016 è atteso un ulteriore calo del 3% circa. Allo stesso tempo, l’inflazione è salita al 10,7% a gennaio, il valore più alto da 12 anni. Pertanto, la banca centrale si è vista costretta a lasciare invariato il tasso guida al 14,25%. Tuttavia, ci sono state anche alcune notizie incoraggianti.
Da un lato, il tasso di disoccupazione è sceso inaspettatamente al 6,9% a dicembre rispetto al 7,5% di novembre. Nel settore imprenditoriale privato, tuttavia, a dicembre non c’è stato nessun aumento netto dei posti di lavoro, così che questo calo della disoccupazione sembra essere migliore di quanto non lo sia realmente. Dall’altro, nelle sue ultime previsioni l’OCSE comincia, del resto, a vedere i primi segnali di stabilizzazione dell’economia brasiliana. Il mercato azionario brasiliano a gennaio ha sofferto una perdita superiore alla media con un meno 7% circa e anche nei prossimi mesi non sembrano presentarsi delle opportunità di acquisto, poiché anche la valuta rimane vulnerabile.
Russia. Nel 2015 l’economia russa ha subito una contrazione del 3,7% circa. Nonostante ciò, il tasso di disoccupazione è rimasto pressoché stabile; in compenso i salari reali sono però calati di quasi il 10%. Nonostante il massiccio calo dei prezzi delle materie prime, il surplus delle partite correnti è stato superiore al 2014 (66 miliardi di dollari rispetto ai 59 miliardi), cosa che è da imputare in primo luogo al forte calo delle importazioni. Nel attuale contesto economico e geopolitico globale dovrebbe diventare molto difficile rispettare l’obiettivo di disavanzo previsto nel bilancio del 3% del PIL.
Alla luce delle riduzioni delle prestazioni in ambito sociale per gran parte della popolazione, in caso di dubbio, il governo potrebbe però anche accettare deficit più elevati semplicemente sulla base di considerazioni di politica interna. L’andamento dei deflussi di capitale è stato molto positivo; rispetto all’anno precedente sono diminuiti significativamente. La banca centrale ha lasciato i tassi guida invariati all’11%, ha però richiamato l’attenzione sui crescenti rischi di inflazione e ha addirittura accennato alla possibilità di nuovi rialzi dei tassi.
È particolarmente preoccupata del forte indebolimento del rublo che potrebbe causare un netto rialzo dei prezzi delle importazioni. In linea con il crollo del prezzo del petrolio, a gennaio il rublo aveva temporaneamente toccato un minimo record contro il dollaro USA; si è però nettamente ripreso nella seconda metà del mese e infine ha perso “solo” il 4% circa. Nel complesso il mercato azionario russo non si è quasi mosso rispetto al mese precedente e di conseguenza ha tenuto sorprendentemente bene di fronte al prezzo del petrolio pressoché in caduta libera e dell’ulteriore aumento delle tensioni geopolitiche.

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