DeAWM: “Se vogliamo che tutto rimanga come è bisogna che tutto cambi”

a cura di DeAWM

Il Grand Finale è passato senza sorprese: in linea con le previsioni nostre e della quasi totalità degli analisti, la banca centrale statunitense ha aumentato i tassi di interesse di 25 punti base. Oltre a questa storica decisione, è stata mantenuta la politica di reinvestimento dei titoli acquistati dal programma QE che giungono a scadenza: questo mantenimento delle dimensioni attuali del bilancio, secondo il comunicato stampa, proseguirà ancora a lungo. La decisione di rialzare i tassi è stata raggiunta all’unanimità, senza peraltro modificare di molto le previsioni che il Comitato Fed rivede trimestralmente. La crescita PIL prevista per il 2016 è stata rivista di +0,1% a 2,4%, mentre i tassi di disoccupazione ed inflazione sono stati rivisti di -0,1% rispettivamente a 4,7% e 1,6%. Oltre a questo, la “mappa” delle previsioni del percorso dei tassi di interesse di qui ai prossimi anni è ora più “appiattita” di quando, lo scorso settembre, è stato deciso di mantenere i tassi a zero: la stima mediana per il 2016 resta a 1,4%, mentre calano lievemente quelle del 2017 (da 2,6% a 2,4%) e del 2018 (da 3,4% a 3,3%). Da notare il fatto che la Fed prevede un numero di rialzi maggiore di quanto noi ci attendiamo, visto che le nostre previsioni a fine 2016 sono di un tasso Fed all’1% (altri due rialzi da 25 pb): chiaro segnale che la quasi unanimità di consensi tra gli analisti sul rialzo tassi attuale non corrisponde ad una visione comune sulle prossime mosse della Fed. Forse l’unico consenso poggia suo fatto che la Fed non procederà come nell’ultimo ciclo di rialzi, quando ha rialzato i tasso meccanicamente di 25 pb ad ogni seduta: questo tipo di approccio è assolutamente speculare a quello attuale, molto legato soprattutto alle dinamiche dell’inflazione e degli “sviluppi internazionali”. Secondo punto interessante è il fatto che la Fed veda, per questo ciclo, un tasso naturale di lungo termine al 3,5%, ben più basso che nei cicli passati. È anche per questo motivo che, almeno fintantoché materie prime e inflazione non torneranno, anche il mercato obbligazionario non ha reagito in modo violento, anche se – come era ovvio aspettarsi – la parte breve ha sofferto di più.

Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi I tassi sono rimasti a zero per sette anni: correva il dicembre 2008, nel momento più buio della storia finanziaria recente, quando la Fed intraprese l’ultimo taglio di questo ciclo: la scorsa settimana, duemilacinquecentocinquantasei giorni dopo, il periodo di tassi a zero è finito negli Stati Uniti. Molti si chiedono quali margini di manovra abbia la Fed in un contesto in cui gli Stati Uniti sono ormai in una fase “matura” del ciclo economico. Eppure, ha ricordato Janet Yellen nella conferenza stampa che ha seguito il comitato, le espansioni non muoiono di vecchiaia. Anzi, in un contesto straordinariamente complesso come quello attuale, seguito alla crisi più drammatica dal 1929, l’approccio intrapreso dalla Federal Reserve è quello – assolutamente razionale – del gradualismo. L’economia statunitense cresce a ritmi moderati, mentre (a differenza che in Europa) la crescita degli investimenti è solida e il mercato del lavoro continua a riportare numeri buoni. D’altra parte, il dollaro forte sta pesando sul settore manifatturiero e sulle esportazioni, e gli “sviluppi internazionali” – formula con cui la Fed descrive tutta l’attenzione alle dinamiche geopolitiche straniere – restano volubili e volatili. Insomma, non è una situazione perfetta, ma ci meraviglieremmo che la Fed voglia arrivare con tassi vicini allo zero e con pochi paracadute all’appuntamento della perfezione, sempre ammettendo che questa esista. E, del resto, per la prima volta la Fed ha parlato di rischi ormai bilanciati sia al ribasso che al rialzo per l’economia statunitense: non agire avrebbe sconvolto i mercati e i nostri stessi assunti per il 2016. E ora? I mercati finanziari hanno letto correttamente quando la Fed aveva “telegrafato” nei mesi passati, ma nei giorni a seguire l’indice VIX statunitense – che misura la volatilità implicita dell’indice S&P 500 – è tornato a sfiorare la soglia di guardia al 20%, con la complicità di diverse scadenze tecniche nel mondo dei derivati.

Secondo il nostro modo di vedere, lo scenario per il 2016 resta quello di una crescita degli utili moderata e di un rapporto prezzo/utili che può comprimersi soltanto marginalmente, da cui deriva un target per l’indice S&P 500 a 2170 (~+8% dai livelli attuali). Tecnologia, consumi discrezionali e finanziari restano le aree di maggiore interesse. Insomma, come Tancredi Falconeri ha detto nel Gattopardo, “in una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro”, con il piglio ambizioso, disincantato e irriverente da ragazzo, “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Con un unico, finale, caveat: in un contesto maturo e più legato alle sorti geopolitiche, la volatilità continuerà ad accompagnarci, a maggior ragione oggi che sempre più banche centrali hanno intrapreso la strada di una minore espansione.

La sorpresa arriva dal Sol Levante Il 2015 ha rappresentato l’anno di svolta per la Federal Reserve da un lato, e della BCE dall’altro. Così, mentre la Fed rassicura i mercati sulla gradualità dei rialzi, Mario Draghi ci ha ricordato che “l’inflazione deve ritornare senza indebiti ritardi” e che a tal fine l’Istituto di Francoforte è pronto a fare di più, se necessario. Intanto, la Banca del Giappone ha ritenuto utile rivedere il proprio programma di QE (denominato Qualitative and Quantitative Easing): continuerà ad acquistare obbligazioni giapponesi per JPY 80 trn/anno (EUR ~50 mld/mese) ma da gennaio acquisterà titoli a scadenza più lunga (la scadenza media cresce di due anni) in modo non troppo dissimile dall’Operation Twist che la Fed intraprese tra 2011 e 2012 prima di inaugurare l’ultimo round di QE. Inoltre, cresce, seppur marginalmente, la componente di acquisti in ETF azionari: la Banca del Giappone si concentrerà sulle società giapponesi che più proattivamente investono nel capitale fisico e umano

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