Settant’anni fa, il presidente della Fed William McChesney Martin coniò una delle metafore più celebri nella storia della politica monetaria: “togliere la coppa di punch proprio mentre la festa inizia“. Un’immagine rimasta impressa per descrivere il momento in cui le banche centrali devono frenare l’euforia dei mercati. Oggi, osservando il comportamento degli investitori americani, quella frase mantiene una sorprendente attualità.
“Con l’elezione di Trump,” scrive Jacob de Tusch-Lec, gestore dell’Artemis Global Income Fund di Artemis IM, “molti investitori sembravano pensare che si sarebbe messo a ballare lo YMCA per divertirsi.” Ma la realtà si è rivelata ben diversa: “Dopo lo shock del ‘Giorno della Liberazione’, le concessioni tariffarie si sono accumulate e l’ansia del mercato si è attenuata”.
Eppure, nonostante la ripresa dell’indice S&P 500 e la ritrovata calma del Vix, de Tusch-Lec invita alla prudenza: “È ora di comprare durante il calo? La risposta breve è no. Ma è il momento di esercitare cautela e rivedere il modo di pensare che ha sostenuto la maggior parte dei portafogli per troppo tempo”.
Negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti hanno catalizzato l’eccesso di risparmio globale, gonfiando il valore delle azioni e del dollaro. Ma, sottolinea il gestore, le valutazioni appaiono ora eccessive: “Da quasi tutti i punti di vista, le principali azioni statunitensi sembrano estremamente costose anche con i recenti ribassi.” Un dato su tutti: il mercato americano rappresenta oggi il 65% degli indici globali, a fronte del solo 4% della popolazione mondiale.
“Mi sembra chiaro che la maggior parte degli investitori abbia troppi asset denominati in dollari statunitensi,” afferma de Tusch-Lec. “Ovunque altro fossimo andati nell’ultimo decennio, avremmo avuto performance peggiori. Ma questo ci esponeva al rischio. Era come giocare a ‘sedie musicali’ – tutti ballano, sapendo che a un certo punto la musica si fermerà”.
La politica economica di Trump ha contribuito a innescare un Nuovo Ordine Mondiale, in cui la globalizzazione cede il passo a una crescente preferenza per la produzione domestica e la protezione degli interessi interni. “I capitali e i flussi di capitale sono diventati un’arma”, sostiene il gestore. E il Regno Unito – per esempio – potrebbe presto domandarsi perché offrire vantaggi fiscali per investimenti in società statunitensi in un contesto così mutato.
Il rischio maggiore, secondo de Tusch-Lec, è ignorare i segnali di squilibrio. “Anche dopo i recenti cali, le azioni USA sembrano ancora sopravvalutate del 25%–30%. Anche il dollaro potrebbe scendere del 20%”. La discesa, a suo avviso, non è una crisi improvvisa in stile Liz Truss, ma piuttosto la naturale conseguenza di un mercato eccessivamente sbilanciato: “Molte persone si chiedevano quale sarebbe stato il catalizzatore del cambiamento. Ora lo sappiamo”.
Il messaggio è chiaro: occorre riequilibrare i portafogli e ridurre l’esposizione agli Stati Uniti. De Tusch-Lec ammette di sentirsi “abbastanza tranquillo nel mantenere una forte sottoponderazione sugli USA”, specificando che il suo fondo globale a reddito da dividendi ha meno del 30% di esposizione sul mercato americano.
“Se partissi da zero, su un foglio bianco, avresti davvero il 65% della tua ricchezza investita negli Stati Uniti se non vivi lì?” chiede provocatoriamente. È una domanda che sempre più investitori globali, da Copenaghen a Città del Messico, dovrebbero iniziare a porsi.
La festa, insomma, non è ancora finita. Ma l’atmosfera è cambiata. “Ci sono ancora molte persone alla festa – e sedie su cui sedersi,” conclude de Tusch-Lec. “Ma sembra che gli investitori stiano cercando il cappotto. Anche se la musica dovesse ricominciare, credo che molti sentiranno comunque che è arrivato il momento di andarsene”.