Fisco, che dolori per i trader

I ricchi trader Usa sono stati messi alle strette da Joe Biden.

Il presidente degli Stati Uniti d’America minaccia di raddoppiare la tassa sul capitail gain, portando dal 20% al 39,6%. L’aumento riguarderà gli investitori che guadagneranno più di un milione di dollari l’anno con investimenti in borsa.
La manovra fiscale dovrà ingrossare le finanze per l’American Family Plan, il piano per l’istruzione e altre spese sociali e andrebbe a sommarsi alla tassa sul reddito da investimento del 3,8% introdotta già da Barack Obama. Il computo totale arriva quindi a 43,4%.

La situazione non è migliore in Italia, dove trader e investitori in genere sono soggetti ad un regime fiscale che sicuramente non aiuta o facilità l’apertura all’investimento.

Prima di tutto, in Italia è necessario distinguere i redditi in due categorie: da capitale e diversi.
I primi si definiscono tali perché sono certi nell’ammontare e nell’esistenza. Confluiscono in questo contenitore gli Etf, i fondi comuni, le cedole delle obbligazioni e i dividendi delle azioni. Nei secondi invece, cioè i redditi diversi, sono quelli che secondo la legislatura derivano da partecipazioni qualificate e non qualificate, riferite a quote inferiori.

A questa distinzione, si somma la tassa  – senza ancora guadagnare – sul deposito titoli. Questa tassa infatti spesso si accosta ad una patrimoniale, ma mascherata, ed è arrivata al valore dello 0,20%. I suoi obiettivi sono tutti gli strumenti finanziari custoditi dagli intermediari finanziari per conto della clientela come azioni, obbligazioni, fondi comuni, fondi pensione, certificati di deposito ed Etf. Infine: per le persone fisiche non esiste un tetto limitativo, per gli altri soggetti si ferma a 14mila euro.

Ma se l’investimento è stato fatto all’estero? Le cose si complicano ulteriormente.
La prima trincea da superare è quella dell’Ivafe, ovvero l’Imposta Valore Attività Finanziarie Estere, dichiarandola autonomamente nella dichiarazione dei redditi. Step successivo è Tobin Tax prevede un aliquota dello 0,2% per i mercati non regolamentati, scende a 0,1% per quelli regolamentati – che è la tassa sulle transazioni finanziarie Italiana, ma ogni stato possiede la sua. Superati entrambi questi due portoni fiscali, scatta anche l’imposta sulla plusvalenza del 26%.
E questi passi praticamente bisogna pensarli in doppia imposizione, estera e nazionale e vale anche per i titoli che hanno sede fiscale all’estero ma sono quotati in Italia.

Insomma, che sia in Usa o in Italia, la strada del trader è un piccolo calvario burocratico e fiscale.

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